ALICUDI MON AMOUR

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ALICUDI MON AMOUR

Domani parto per la mia isola magica e così i miei prossimi post parleranno di isole, mare, sole e ricette semplici, pesce e verdure.  Intanto però vorrei raccontarvi qualcosa di più della mia isola, Alicudi.

“La prima volta che sono arrivata ad Alicudi l’isola ci venne incontro scoperta, senza mediazioni, in maniera diretta.  Quello che si vedeva era quello che c’era.  Prendere o lasciare.  E ciò che si vedeva era un panettone roccioso, un sole accecante, cespugli e fichi d’India e poche casette bianche inerpicate sui fianchi della montagna.  Mio fratello ci aspettava sul molo sgarrupato.  L’isola non esibiva nessuna delle astuzie e degli stratagemmi usati dalle sue sorelle per conquistare gli estranei.  Le case erano di una semplicità disarmante, intonaci mezzi scrostati e ancora molti ruderi a vista, la natura selvaggia e scomposta, niente giardini ben curati o piante da esposizione.  Due negozietti vendevano pane, verdure, sigarette e quel tanto di cui c’era bisogno per campare.  Un altro buchetto, chiamato con un po’ di affettazione “la boutique”, vendeva giornali, riviste, souvenir e qualche libro.  Una pensione dall’aspetto dimesso fungeva anche da trattoria.  Fine delle attrazioni turistiche.  Niente bar, niente discoteche, niente ristoranti alla moda.  Nel corso dei vent’anni trascorsi da quella prima volta, a questa lista si sono aggiunti una farmacia (aperta solo nei due mesi estivi e solo per poche ore al giorno) e un piccolo bar ristorante.  In compenso sono sparite le sigarette.  Il molo è stato un po’ ingrandito, qualche rudere è stato rimesso a posto, qualche casa ridipinta, qualcun’altra è sorta dal nulla, ma sostanzialmente il panorama è restato identico.  Non ci sono macchine perchè non ci sono strade, di strada, se così vogliamo chiamarla, ce n’è solo una, due o trecento metri che costeggiano la spiaggia e uniscono il molo alla pensione.  I negozi succitati sono tutti in basso.  A fianco del molo si apre una piccola piazzetta su cui si abbracciano i soli due veri, grandi alberi dell’Isola, due giganteschi fichi beniamini.  E poi cominciano le scale, scale che sembrano infinite, scale di pietra che ogni volta che si salgono viene da pensare a chi, sotto un sole inclemente, le ha costruite trascinandosi sulle spalle enormi lastroni.  Tre serpenti scoscesi dividono verticalmente il paese: una che sale verso la chiesa per poi raggiungere il Vallone e lo Sgurbio, due delle “contrade dell’isola”; il secondo si arrampica verso la contrada Tonna (dove sta la mia casa) e ancora più in alto a Pianicello, la piccola enclave tedesca.  Tutti e tre poi si riuniscono per raggiungere la sommità dell’isola, la montagna, il grande cratere spento, dove è adagiato il paese vecchio o meglio ciò che ne resta.  Chi vive o trascorre le sue vacanze ad Alicudi sa che non ci sono indirizzi, ci sono gradini.  Chi sta al 100esimo, chi al 500entesimo, chi addirittura al 1000esimo.  Io sono al 465 ma quel primo anno i miei gradini erano circa un centinaio, poca roba, anche se quando li scalavo sotto il sole ardente mi sembrava che non finissero mai.  Niente mi aveva però preparato all’invito a cena da mio fratello che viveva invece all’800esimo gradino! Mentre arrancavo su per le scale maledicevo mentalmente me stessa per essere così fuori forma e mio fratello per quella scelta così estrema.  Arrivai su talmente stravolta da riuscire solo a chiedere con voce strozzata e occhi fuori dalle orbite quale fosse stata l’insana follia che lo aveva spinto a un acquisto così insensato.  Lui mi guardava con un piccolo sorriso obliquo.  Poi mi spogliai nuda, mi rovesciai addosso un catino d’acqua (tanto per addolcire la situazione la casa non aveva nè luce nè acqua corrente) e piombai finalmente su una sdraio guardandomi intorno per la prima volta.  Ero su un patio quadrato, una parte del quale era coperta dalla pergola di una vite, l’altra invece era avvitata come un nido d’aquila su uno spuntone di roccia a strapiombo sul mare.  Sotto di me, come in un presepe poco illuminato, brillavano fioche le luci delle case in basso.  Intorno solo mare, la sagoma scura di Filicudi a sinistra e di fronte, in lontananza, la costa frastagliata della Sicilia.  Sopra la mia testa un cielo denso di stelle, la più straordinaria stellata che mi fosse mai capitato di ammirare.  Ero rapita dalla pace e dal silenzio intorno, un silenzio talmente intenso da essere quasi rumoroso.  La terrazza era illuminata solo da candele e qualche lampada a petrolio.  Poi ci sedemmo a mangiare.  Quella sera mio fratello aveva preparato un piatto di spaghetti al pomodoro, semplicissimo nella sua banalità: pomodori, basilico e capperi.  Il fatto era che si trattava di molto di più che di semplici ingredienti, qui si parlava di “Il Pomodoro”, “Il Cappero” e “Il Basilico”.  L’aria intorno a me si era caricata di scintille: come la peggiore tra le drogate non riuscivo a fermarmi, avrei voluto ripetere all’infinito quel piccolo miracolo dei sensi.  E il merito era di prodotti perfetti.  Tutto proveniva dall’isola stessa, compresi l’olio e l’aglio con cui era stato fatto il sugo, e tutto era di un’intensità ormai difficile da trovare altrove.  Merito del sole e di quel terreno vulcanico in cui bastava buttare un seme perchè ne venissero fuori piante rigogliose.  Un’isola capace di compiere simili magie era un’isola in cui valeva la penna fermarsi.

DA “A TAVOLA CON GLI DEI-RICETTE E MEMORIE DELLE ISOLE EOLIE”- STEFANIA BARZINI, EDIZIONI GUIDO TOMMASI.

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