ANNI ’50: LA GITA FUORI PORTA

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ANNI ’50: LA GITA FUORI PORTA

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L’Italia degli anni ’50, quella in cui sono nata io, era un  Paese proletario di estrazione ma gia’ fortemente piccolo borghese nelle sue aspirazioni. Un Paese in cui le giovani generazioni si vergognavano a mangiare il “cibo di casa”, quello dei loro genitori, che non andava piu’ di moda perche’ considerato vecchio e ormai superato. La tendenza del momento era quella di andare a pranzo fuori, nelle trattorie, magari al mare, si beveva Coca Cola e non piu’ vino rosso, si consumavano gelati e non piu’ frutta, Campari e non piu’ spremute. Le frittate con le cipolle, simbolo di umili e grossolane origini, erano adesso diventate imbarazzanti e il sugo della pasta doveva essere rigorosamente privo d’aglio, considerato condimento troppo plebeo e quindi volgare.

Ma soprattutto nell’ Italietta di quegli anni si scoprono le gite domenicali e le vacanze estive.

La domenica, la mia famiglia insieme a migliaia di Romani, si raggiungeva il mare con qualsiasi mezzo, autobus, trenini, lambrette, vespe, automobili, per dedicarsi ad un nuovo entusiasmante gioco di massa, quello del pic nic.

 

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Dalla citta’ partivano carovane armate fino ai denti, cariche di piatti e stoviglie, sedie a sdraio e tavolini pieghevoli, radioline e coperte, e soprattutto di cibi cucinati a casa e poi trasportati nei portapranzi di metallo. Dentro c’era di tutto: rigatoni al sugo, frittate e verdure stufate, panini e pagnottelle, spaghetti e polpette. In quelle occasioni ciascuno sbirciava l’ombrellone del vicino alla ricerca di confronti gastronomici: quello beve il vino, l’altro ha il pollo, l’altro ancora il panino con il prosciutto crudo, segno inequivocabile di ricercatezza e benessere. Per tutti poi, ricchi e meno ricchi, il pasto si concludeva con il cocomero, quello con cui, come suggerivano i baracchini lungo la Via del Mare: “ Magni, bevi e te sciacqui er grugno!”. Dopo pranzo, mentre sotto il sole giaguaro si diffondevano le voci un po’ stentoree dei radiocronisti dell’epoca a commentare le azioni della squadra del cuore, da tutta la spiaggia si alzava un unico grido: “ Bruno! Rosa! Marco! Assunta! Nun te bagna’ che te vie’ la congestione!”. Quella congestione che per anni ha incarnato l’incubo di ogni mamma italiana durante la stagione calda.

 

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Erano gli ultimi anni del decennio, quando mangiare, e tanto, era diventato di fatto il simbolo e la dimostrazione della sopraggiunta prosperita’. Ad impressionare non era tanto la qualita’ dei piatti quanto l’abbondanza dei cibi. La guerra era veramente finita e l’Italia celebrava entusiasta. Piu’ che un popolo di buongustai, (parola oggi scomparsa, per lasciare il posto alla piu’ “raffinata” ed esotica “gourmet”) eravamo allora una variopinta moltitudine di grandi mangiatori.

Verso la fine degli anni ’50 era poi purtroppo comparsa sulle tavole degli Italiani la terribile carne Simmenthal, quei cilindri rosei e compatti avvolti da gelatina scadente. La pubblicita’ ci assicurava ( e non ho motivi per dubitarne) che si trattasse di carne al 100 %, certo e’ pero’ che io quei sapori in natura non li ho mai incontrati, chissa’ forse si trattava di carne di mucche speciali, la famigerata razza Simmenthal per l’appunto. Sia come sia, io quella novita’ l’ho detestata sin dall’inizio, un’avversione che non ha mai conosciuto cedimenti soprattutto perche,’ ahime’, allora la triste scatoletta ci veniva propinata spesso.

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