Gli anni ’50 volgevano al termine, la mia famiglia si ingrandiva a ritmi vertiginosi, era infatti nato anche il quarto fratello, e i miei genitori, insieme a milioni di Italiani, cominciavano a “ricevere” con rinnovato trasporto. Era questo un aspetto della loro vita completamente indipendente dal resto della famiglia. Quello era il mondo dei “grandi”, un mondo che aveva modi, abitudini e costumi sconosciuti e lontani da quelli di noi bambini. Persino la scenografia era diversa: quando avevano ospiti, i miei li accoglievano in salotto, area a noi rigorosamente proibita. La stanza era divisa da un basso tramezzo che separava la zona pranzo da quella “intrattenimento”.
Il mio piu’ grande divertimento in quegli anni, era quello di scivolare, senza essere vista, dietro al muretto divisorio e da li’ osservare e spiare il mondo degli adulti riunito in serate che mi sembravano il massimo dell’esotico: belle signore, profumate ed eleganti, distinti signori impeccabilmente vestiti, luci morbide e tovaglie ricamate, argenti e cristalli scintillanti. E soprattutto i cibi, cosi’ radicalmente “altri” rispetto a quelli a cui noi “piccoli” eravamo abituati. Di quelle serate per me magiche (non fui mai scoperta), non ricordo neanche una conversazione ma non dimentico nessuna portata. Su quella tavola si susseguivano sformati di pasta ricchi di bechamel e zuppiere di brodo fumante, souffle’ dorati e morbidi flan, lucidi arrosti e verdure condite, e soprattutto, simbolo evidente di enorme raffinatezza (quantomeno per me e immagino anche per mia madre che li riproponeva ad ogni cena), fragranti vol-au-vent ripieni di crema di formaggio, o di funghi e pisellini al prosciutto. Mi inebriavo di quei profumi, finche’ intontita dal sonno e dagli aromi del cibo, tornavo strisciando nel mio letto dove crollavo addormentata.
Furono proprio quelle visioni serali a spingermi, nel limite delle mie possibilita’, a tentare di riprodurre simili feste degli occhi e del palato.
Per Natale mi avevano regalato, ben rilegati in un cofanetto rigido, i quattro volumi de “L’Enciclopedia della Fanciulla”, ognuno dedicato a quelle che allora erano considerate le qualita’ indispensabili per la riuscita delle “piccole donne anni ‘50”: cucito, ricamo e lavoro a maglia, gestione della casa (dalla pulizia dei pavimenti, al bucato, al rifare i letti), arte del ricevere, e cucina. Io ero disordinatissima, assolutamente incapace di tenere in mano un ago e tanto meno di ricamare, a maglia ero in grado di fare solo sciarpe e in quanto all’arte del ricevere non era francamente tra i miei passatempi preferiti. Mi piaceva pero’ leggere, mangiare e adesso anche cucinare. Cosi’ lessi coscenziosamente il volume culinario e comunicai a mia madre che avrei voluto invitare quattro o cinque delle mie amiche per offrire loro un pranzo interamente preparato da me. Avevo anche gia’ scelto il menu, spaghetti al pomodoro, scaloppine al marsala con puree’ di patate e per finire una macedonia di frutta. Niente di particolarmente originale ma pur sempre uno sforzo non da poco per una bambina di otto o nove anni. Ricordo quella mattinata in cucina come una delle piu’ emozionanti della mia vita. Di quella esperienza mi piacque tutto, preparare il soffritto, passare le patate, infarinare le scaloppine, tagliare a pezzettini la frutta. Ma soprattutto a conquistarmi per sempre fu quel senso di sdoppiamento e di leggerezza consapevole che mi avvolse dopo un po’ che ero intenta ai fornelli. La mente che si allontanava lieve nell’aria mentre le mani lavoravano quasi da sole. Liberta’ e quiete, abbandono e sogno ad occhi aperti. Sono queste ancora oggi le mie ore in cucina. Il pranzo fu un trionfo, innanzi tutto per me. Avevo capito cosa volevo fare da grande.
No Comments