Le donne che escono dalla guerra sono donne diverse. Sono stati tempi per loro di dolore, fatica, sofferenza, ma anche la prima, vera, stagione di autonomia, un momen- to esaltante.
La fine del conflitto porta con sé euforia ed eccitazione, all’orizzonte si affaccia la follia dei ruggenti anni Venti.
Nuove mode, nuova musica, nuovi film, nuovi roman- zi arrivano dall’America. Per un breve attimo sembra che tutto sia possibile, in particolare per noi donne. Le «ma- schiette», le disinvolte e spregiudicate ragazze di quegli anni, ascoltano jazz, guidano le automobili, bevono, fumano, si tagliano i capelli, indossano abiti corti e non vanno mai in giro senza make-up.
Sul «Catalogo Rinascente delle famiglie italiane» appaio- no i primi costumi da bagno, nere tunichette con le bretelle, abbinate a calze a guaina, anch’esse nere, le donne li sfoggiano sulle spiagge di Rimini e della Versilia. Nelle cucine delle signore ricche fanno bella vista i primi frigoriferi americani. La vita sembra sorridere. Invece, si tratta solo di una breve parentesi.
Il 28 ottobre 1922 infatti Mussolini marcia su Roma e lo fa con grande fanfara.
La donna ideale è di media statura, di anca larga, fianchi ampi, rotonda, perché «Guai», come sosterrà nel lanciare la «battaglia per il grasso», «alle donne maschiette, alle donne piatte, magre, dal corpo perpetuamente adole- scente, le donne che si limitano ai pasti e si avviano in breve alla tubercolosi!».
D’altronde, come un po’ volgarmente recitano i detti po- polari dell’epoca: «Di donna senza ciccia lo strapaese non s’impiccia. Donna che pesa un’oncia la propria casa scon- cia e in stretto bacino mal si cova il piccino».
Anna Vertua Gentile, una scrittrice oggi dimenticata, autrice di romanzi, novelle, raccolte di consigli per fanciulle e giovani signorine (Come comportarsi, Donnine di domani, L’arte di farsi amare dal marito), scrive, a proposito del mangiare e del bere: «Finita l’epoca della signorina sentimentale e romantica che non mangiava per poter essere pallida, e fare un vitino che stesse nell’anello dei due medi e dei due pollici, ritornati la ragione e il sano appetito … a tavola mangi la fanciulla e benedetto sia il bell’appetito a cui piace anche il pane. E impari magari anche a bere due dita di vino».
Saper cucinare è infatti tra le indispensabili virtù della futura sposa littoria perché un buon piatto, si sa, è il modo più facile e sicuro di trovare marito. E con una rapida giravolta scompare del tutto dalle scene l’uomo cuoco, anche dalle famiglie più abbienti, il fantasioso artefice di sublimi creazioni artistiche diventa adesso il nemico della sa- lute, vanesio, spendaccione e inaffidabile ai fornelli. E la tanto vituperata cuoca sale invece definitivamente, grazie anche agli indottrinamenti degli anni precedenti, sul trono di regina della casa, avveduta, attenta ai costi e ai valori regionali, più interessata alla sostanza che all’estetica, come invece accadeva nei decenni precedenti.
I cibi che prepara non brillano in fantasia, sono econo- mici, fatti di avanzi, esigono cotture lunghe, bolliti, brodi, polpette e polpettoni, sughi e pasta fatta in casa, pane secco riutilizzato in mille maniere. Piatti che raccontano una società ancora arcaica, domestica, semplice. Sarà infatti questa stessa cultura gastronomica a essere messa più a dura prova a iniziare dal secondo dopoguerra.
Dunque le cuoche del Ventennio, sono grasse, carnali, opulente. Hanno nomi che quasi non esistono più: Adalgisa, Assunta, Adele. Hanno tanti capelli che portano acconciati in sontuose pompadour, sono sempre sorridenti e persino un po’ baffute. D’altronde le signore fasciste non devono avere troppi ghiribizzi per la testa, la loro vita è tutta casa, campi e cucina. Come afferma il Duce: «Le donne devono tenere in ordine la casa, vegliare sui figli e portare le corna». In quest’ordine.
Ma l’atteggiamento del regime verso «l’altra metà del cielo» è, a essere ottimiste, ai limiti della schizofrenia. Da una parte si tende a limitare al massimo la presenza femminile per ciò che riguarda amministrazione e lavoro, dall’al-
Mussolini ha al contempo paura e bisogno del «sesso de- bole». Ha bisogno di una donna unicamente relegata nel ruolo di moglie e madre, che costituisca lo zoccolo duro dell’Impero, che sforni bambini come fossero tante palle di cannone perché «la famiglia ben ordinata, ben condotta, modestamente agiata, tranquilla e serena è la base di ogni popolo forte, di ogni nazione veramente civile».
«I popoli dalle culle vuote» grida il Duce in visita in Lu- cania «non possono conquistare un Impero e, se lo hanno, verrà il tempo in cui sarà diffcile conservarlo e difenderlo. Hanno diritto all’Impero i popoli fecondi, quelli che han- no l’orgoglio e la volontà di propagare la loro razza.» E per ottenere questo prototipo femminile, il regime si sforza moltissimo.
Sui giornali, sulle riviste, nelle grandi adunate si esalta con termini roboanti e grondanti retorica la maternità, sostegno e forza primaria dello Stato. La donna del Ventennio non deve quindi farsi illusioni, il suo ruolo nella costruzione del nuovo ordine è puramente fisico.
A scuola le insegnanti tartassano le piccole fasciste con le eroiche gesta delle madri italiane: ci sono Rosa Guito- ni e Rosa Maltoni, le mamme di Garibaldi e di Mussoli- ni, c’è Adele Cairoli, madre dei famosi eroi risorgimentali, c’è l’immancabile Cornelia con i suoi Gracchi e c’è la più coraggiosa di tutte, la mamma di Nazario Sauro, che per salvare il figlio dal boia austriaco aveva fatto finta di non conoscerlo. Nel doposcuola poi ci si dedica a cucire corredini, destinati ai figli delle emigranti, richiamate in terra natia dal governo al grido di «figli alla patria».
Una continua celebrazione della mamma italica, ma attenzione non di una mamma qualunque quanto piuttosto della mamma feconda, ubertosa, fruttifera.
Nel primo anno dell’adunata nazionale a Roma, sono passate in rassegna, un po’ come si fa con mucche e giumente, le signore più prolifiche di ogni provincia italiana, i migliori esemplari della razza. Sono madri senza nome, puri contenitori, le chiamano infatti per numero di figli, c’è la sedici, la undici, la venti.
Per ottenere questa selezione di pregio bisogna lavorare di fino su un certo tipo di educazione sessuale o meglio vietare qualsiasi educazione sessuale, niente aborto, nessun contraccettivo. E come riuscire a far sì che le prosperose massaie figlino come coniglie? Basta allontanarle dalla sfera pubblica, dal mondo della cultura.
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