DA: “UNA CASALINGA AD HOLLYWWOD- SPLENDORI E MISERIE DELL’AMERICA CHE MANGIA”- EDIZIONI GUIDO TOMMASI
“Prima di iniziare a cucinare però bisognava risolvere un altro problema: l’approvvigionamento. Era giunto il momento di affrontare il supermercato.
Se è vero che ogni città ha i musei che si merita, nessun museo può raccontare meglio Los Angeles dei suoi supermercati. Peg Bracken, una famosa “food writer” americana, autrice tra l’altro di un libro di ricette dal titolo emblematico: “The I Hate to Cook Book” (Il Libro di Cucina per chi Odia Cucinare) sostiene che il supermercato è un posto orribile se si odia cucinare. Per me è vero l’esatto contrario: non c’è niente di più spaventoso di un supermercato americano se siama cucinare.
Già dall’esterno il supermercato ha qualcosa di inquietante. Non importa infatti a quale catena appartengano, Gelson’s, Ralphs, Costco, Vons, i supermarket californiani hanno tutti in comune di sorgere, come cattedrali, al centro di un mall. Ai loro lati sono sempre attaccati, come i tentacoli di un gigantesco polipo, un negozio di video, una banca, un coffee bar, un salone di bellezza, un qualche tipo di ristorante fast food, che sia cinese, messicano o americano, e ovviamente un grande parcheggio. Lo schema è sempre identico. Una sconfortante uniformità.
Emozionata e armata di un carrello gigantesco mi decisi così a varcare la soglia di Lucky, il mio supermercato di riferimento.
La prima cosa che mi colpì entrando furono le luci al neon, bianche e abbaglianti. La seconda, il freddo polare; qualunque sia la temperatura esterna l’aria condizionata funziona sempre al massimo. La terza fu l’assoluta mancanza di qualsiasi odore generalmente presente in locali dove si vende cibo. La quarta, la vastità e l’impressionante quantità degli articoli esposti (secondo un recente sondaggio un supermercato di media grandezza espone circa 25.000 articoli). Questa abbondanza mai vista prima, mi provocò un’eccitazione mista ad ansia e ad una certa nausea. Insomma come in qualsiasi museo che si rispetti anche questo scatenava la sua “sindrome di Stendhal”.
Superato il primo smarrimento cominciai ad analizzare il contenuto delle file di scaffali intorno a me. Quel primo giorno girovagai tra salse e surgelati per almeno quattro ore. Mio marito mi diede per dispersa.
La prima considerazione fu di ordine generale: era innegabile che gli Americani soffrissero di una sindrome acuta di personalità divisa. Passeggiando nel reparto surgelati avevo notato che accanto a confezioni magnum di gelato di cicoccolato, noci, caramello e crema era in vendita la panna spray a basso contenuto di grassi, di fronte ai pranzi già pronti “Hungry Man” (per uomini affamati), un blocco da mezzo chilo di cibo non meglio identificato, venivano esibiti i prodotti Lean Cuisine (cucina dietetica), e insieme ai dolci al cioccolato grondanti burro faceva bella mostra la Coca Cola Light. Un’offerta piuttosto sconcertante. In pratica l’americano voleva abboffarsi e stare a dieta contemporaneamente ma a giudicare dal numero di obesi che si trascinavano tra i corridoi la formula non sembrava funzionare un granchè.
Ma l’aspetto più affascinante del mio supermarket era la quantità di cibi bizzarri, ce ne erano di tutti i tipi. Eccovene una breve lista.
Pancakes’n Sausage on a stick: letteralmente la pastella delle pancakes (quella specie di frittelle che si mangiano per la prima colazione insieme allo sciroppo d’acero), avvolta intorno ad una salsicca e poi infilata su un bastoncino da gelato. Non ci tenevo a scoprire a) chi l’ avesse inventata, b) chi la comprasse, e c) chi poi avesse effettivamente il coraggio di mangiarla.
Macaroni & Cheese (Maccheroni e formaggio): sempre pubblicizzati come i “Family Favorites”, il pasto preferito delle famiglie americane. Questo, scoprii in seguito, è uno di quei prodotti che immancabilmente riportano l’americano all’infanzia ( gran brutta infanzia!), si tratta di una confezione di maccheroni made in America (quelli a cottura impossibile) accompagnati da una bustina di formaggio in polvere (?) da sciogliere sul fuoco. Il tutto mescolato insieme, dà vita ad un prodotto immangiabile a meno che non si sia per l’appunto americani. Oltre alla confezione standard ne esistono anche altre varietà, più speziate, più cremose, fino ad arrivare alla più fantasiosa che prevede pasta verde.
Sliced Dried Beef (Carne secca di manzo affettata): vale a dire manzo essiccato, macinato, ricompattato, tagliato a fette e messo in barattolo di vetro. Qual’è il motivo di tutte queste operazioni? E poi chi la mangia e come? Domande senza risposta.
Spam! ( Carne in scatola): è l’equivalente della nostrana simmenthal ma peggio se è possibile. La Spam ha avuto il suo momento di gloria durante la seconda Guerra Mondiale quando faceva parte delle razioni giornaliere dell’esercito americano. E finchè si era in guerra, passi. Ma al giorno d’oggi perchè rovinarsi l’appetito con un tronco inscatolato di carne(?) gelatinosa? Per i più masochisti c’è anche una versione affumicata e una insaporita al formaggio. Ci si possono preparare fantasiosi panini e stufati.
Clam Juice (Succo di vongole): Che dire? Si tratta di succo di vongole imbottigliato. Non so (e non voglio sapere) se si debba berlo come un qualsiasi succo di frutta o se invece si utilizzi per cucinare. Nessuna delle due opzioni mi sembra particolarmente esaltante. La sezione più interessante (almeno per me) era però quella dei latticini: burro, latte e formaggi.
Di latte ce ne sono talmente tante varietà, più grasso, meno grasso, magro, un pò magro, molto magro, magrissimo e così via, che dopo un primo sbandamento decisi di acquistare solo quello grassissimo. Il vero choc fu il burro. Infatti non esisteva. Non quello vero almeno che quasi scompariva tra decine di variazioni a base di margarina e pseudo burro. Tra gli pseudo il più famoso è senz’altro quello che si chiama “I Can’t Believe It’s Not Butter!” (“Non Posso Credere Che Non Sia Burro!”). Invece, fidatevi, crederci è facilissimo. E per quanto riguarda i formaggi? Il primo, irrinunciabile requisito è la totale mancanza di odore, il secondo è la totale mancanza di sapore. Il formaggio è venduto in grandi blocchi rettangolari o già confezionato, viene a volte insaporito con peperoncino o grani di pepe nero. Il colore varia dal giallo all’arancione vivo.
Io, da brava italiana, avevo tre esigenze base: mozzarella, parmigiano e ricotta. Nel mio primo supermercato (e ad essere sincera anche nel secondo e nel terzo), era etichettata come mozzarella una palla giallina perfettamente rotonda, avvolta in pellicola trasparente, così dura che se la lanciavi contro la parete rimbalzava. Per onestà devo dire che in alcuni supermercati (di solito quelli di quartieri ricchi) si trovavano anche mozzarelle un pò più dignitose, per lo più fatte in Texas (per capirsi le equivalenti delle nostre Santa Lucia). Con il parmigiano andava un pò meglio. Se esistevano ancora i famigerati barattoli verdi era però possibile acquistare del parmigiano”locale” (assolutamente discutibile ma un gradino più in su del barattolo) e anche parmigiano “importato” dall’Italia, anche se, diciamolo, noi agli Americani gli mandiamo gli scarti.
Per me, romana, il vero problema era la ricotta. Io adoro la ricotta, quella fresca di pecora, che si scioglie in bocca. A Roma, con un pò di fatica è ancora possibile trovarla. Nel mio supermercato però la ricotta si vendeva in barattoli. Avete presente i secchielli da spiaggia? Quelli con cui si fanno i castelli di sabbia? Ecco quelli. Stessa grandezza. E se siete adulti giocherelloni potrete utilizzarli nello stesso modo. Rovesciateli su un tavolo e provate a costruire il vostro castello. Non c’è altro uso possibile. Si tratta di un perfetto cilindro, salato e assolutamente compatto che resta in forma per parecchi giorni.
Poi c’era la carne, tanta, e anche buona, migliore certamente di quella acquosa e insapore che compravo nelle macellerie romane. Il macellaio americano o quantomeno colui che si occupa di impacchettare la carne nei supermercati, deve solo fare molta attenzione a che non si capisca la provenienza dei tagli in vendita.
Niente immagini di mucche perciò, tantomeno pezzi interi, quando, raramente, si trovano conigli, caprioli o altra selvaggina, sono rigorosamente surgelati e tagliati a pezzi. In altre parole irriconoscibili. Gli americani non mangiano Bambi e Bugs Bunny. Polli e tacchini meritano un discorso a parte.
Il mio carrello traboccava di salse, barattoli, vassoietti surgelati, enormi bistecche, volevo assaggiare tutto, ero stremata ma prima di passare alla cassa decisi di fare un ultimo sforzo: il reparto frutta e verdura. Finalmente una vera gioia per gli occhi! Montagne scintillanti di arance, pesche, insalate, spinaci, pomodori. Tutto era affetto da gigantiasi. Pensavo di trovarmi in una specie di Disneyland vegetale: gambi di sedano larghi almeno 4 dita, ciliege come albicocche, elephant garlic, l’aglio elefante, grande come la proboscide del suddetto animale. Ogni cinque minuti poi gli altoparlanti rombavano come tuoni e i banchi venivano annaffiati da una pioggerella sottile. Non mi stancavo di guardare, come un bambino di fronte al negozio di giocattoli. Comprai tutto quello che potei. Le sorprese arrivarono poi a casa.
In America frutta e verdura sono coltivate per essere trasportate, devono sopravvivere a lunghi viaggi in camion e apparire ancora fresche e belle quando arrivano sugli scaffali dei supermercati. Il look è perciò importantissimo, il sapore molto meno. E il consumatore americano apparentemente sembra accettare questa logica. Tutto è perciò bellissimo ma privo di gusto. Prendiamo il pomodoro, un altro dei miei ingredienti favoriti. Quelli che si vendono nei supermercati sono una di una qualità speciale: il supermarket tomato. Secondo una recente indagine della rivista americana Bon Appetit i pomodori sono al primo posto nella classifica dei cibi più amati dagli americani. Magari sarà l’idea del pomodoro, perchè quelli che avevo comprato io , grandi, perfettamente rotondi, sodi, scintillanti, di un colore arancione-rosato, una volta tagliati mostravano una polpa spugnosa, priva di succo. Quanto al sapore, la cosa che ci si avvicinava di più era il muschio. Ma quel giorno, al supermercato, non lo sapevo. Fu perciò con un certo orgoglio che mi avvicinai alle casse.
Le casse dei supermarket sono un ottimo osservatorio su abitudini e costumi del mondo circostante. Intanto le file sono ordinatissime, niente corpo a corpo, nessuno tenta di fare il furbo scavalcando il vicino. Pazientemente si aspetta. E alle casse attendere il proprio turno non è mai noioso. Intanto si possono fare interessanti considerazioni sui vostri vicini. Io, quel giorno mi dedicai ad un’analisi dei diversi comportamenti di madri americane e italiane quando fanno la spesa. Sulla madre italiana ( e su quella romana in particolare) sono stati scritti interi saggi.
La mamma romana si trascina la creatura, di solito coperta come per una gita sulla neve anche a maggio, da un negozio all’altro. Di questa transumanza quello che colpisce è la colonna sonora, una specie di radiocronaca in diretta, anche se il pupo ha solo cinque mesi e ancora non capisce. ” Lo sai adesso mamma che fa? Ti porta a comprare le verdurine che poi ci facciamo il brodino per la pappa e poi andiamo da nonna tua! E dopo il brodino che ti dà mamma? La ba….la bana….la bananina! Vero che ti piace tanto la bananina? Ma lo sai che la nonna domani parte e……” E avanti così per ore senza mai riprendere fiato, interrompendosi solo per sbaciucchiare la creatura o per coprirla meglio (“Me dovesse prende’ aria….”). La gente intorno lo considera normale. Immancabile poi la visita dal droghiere, dove, malgrado il pupo non abbia ancora i denti, gli sarà comunque offerto un pezzo di pizza, una fetta di pane, una mollica di parmigiano o altro a scelta perchè si sa, “Il pupo deve da cresce’!”. E’ alla cassa poi che i bambini italiani, incapaci di attendere anche solo qualche istante, danno il peggio di sè: cercano di lanciarsi dal passeggino, tirano giù l’intero display di gomme e caramelle, urlano come aquile scalciando in aria. La mamma di solito sorride orgogliosa delle acrobazie del pupo suo. Gli altri clienti immaginano sofisticate torture.
La mamma americana è di tutt’altra pasta, quanto meno quando fa la spesa. Tiene il figlio saldamente allacciato al suo passeggino, la comunicazione è pressocchè nulla , contatti fisici assenti o ridotti al minimo. In compenso il bambino americano è buonissimo, immobile nel suo passeggino attende pazientemente che si concluda il rito degli acquisti, senza smaniare e senza pretendere nulla. A nessuno comunque verrebbe mai in mente di offrirgli pane e pizza. Continuo a pensare che tra questi due estremi bisognerebbe forse inventare una madre del terzo tipo.
Altro diversivo per chi aspetta in fila sono i giornali. Ogni cassa ha la sua esposizione di riviste che possono essere sfogliate e poi rimesse a posto. Tra queste le più interessanti sono i tabloids, giornali che vengono venduti solo nei supermercati a base di improbabili pettegolezzi sulla vita di personaggi famosi e ancora più improbabili notizie di cronaca (molte quelle riguardanti gli alieni).
Il mio preferito è il Weekly World News, in assoluto la più raccapricciante raccolta di “fatti” assurdi dal mondo. Qualche esempio? Un’intervista a Sandra Cronquist, la prima, e finora anche unica, donna-canguro al mondo: una giovane signora che dopo una visita allo zoo, ha deciso di farsi impiantare una sacca marsupiale sulla pancia per poter trasportare più comodamente il suo bambino. C’è poi la saga infinita di Bat Boy, bambino mutante mezzo uomo e mezzo pipistrello. Avvistata per la prima volta in una grotta della Virginia, la povera creatura è stata catturata, poi è riuscita a fuggire, per essere segnalata nuovamente dalle parti del Texas (dove sembra essersi innamorata di Jenna, una delle gemelle sceme di George Bush). Adesso Bat Boy è ricoverato in un ospedale della Florida dopo essere stato schiacciato dal trattore di un contadino mentre spruzzava di insetticida le sue piante e che, già che c’era, ha innaffiato di veleno anche lui.
Molte delle storie del Weekly World News sono legate al cibo e soprattutto allo spauracchio americano per eccellenza: gli obesi. Come quella della Fat Lady (la Cicciona), peso 340 chili, che è stata presa d’assalto in un Fast Food da una folla inferocita armata di forchette di plastica.La signora in questione era restata incastrata nella porta della toilette e gli avventori, impossibilitati a svolgere le loro funzioni corporali, si sono lanciati sulla Fat Lady al grido di “Miss Piggy, rotolo di lardo” infilzandola più volte (200 secondo gli inquirenti), prima che i Vigili del Fuoco riuscissero a salvarla. Sempre secondo il Weekly World News però, il primato della coppia più grassa del mondo spetta ad una coppia fiorentina, Paulo (sic) e Benedetta Cipriani, 1200 chili in due, genitori del piccolo, si fa per dire, Tomasso (sic), 15 chili alla nascita. Il giornale ci racconta nei dettagli la dieta giornaliera della simpatica coppia. Prima colazione, ingredienti per due persone: 28 uova, 24 salsicce, 24 fette di bacon, 12 muffins (dolcetti americani non esistenti in Italia), 7 litri di latte. E’ evidente che il giornalista non è al corrente del fatto che da noi il breakfast si fa con cappuccino e cornetto. Pranzo, sempre per due: 5 chili di salsicce e peperoni, 4 porzioni di lasagne, due zuppiere di ravioli, 2 filoni di pane (si specifica che il pane è fatto in casa, secondo l’immaginario americano). Cena: 4 porzioni di spaghetti alla siciliana con aglio (siamo Italiani e si sa consumiamo molto aglio, anche a Firenze), 4 porzioni di pasta primavera, 4 porzioni di minestrone, 4 piatti di rigatoni, 4 porzioni di risotto ai frutti di mare, 2 bottiglie di vino e per finire 7 chili di gelato. Il menu è una summa di tutto ciò che gli Americani credono che si mangi in Italia (rigorosamente assente la carne perchè, come i nostri emigranti nel secolo scorso, non possiamo ancora permettercela).
Dopo la lettura del giornale arriva il momento del conto.
Alla mia prima uscita mentre la cassiera conteggiava gli articoli, un ragazzo, in piedi all’estremità del tappetino scorrevole mi apostrofò guardandomi fisso negli occhi: “Paper or plastic?”. La domanda mi trovò impreparata. Pensai che si riferisse alle modalità di pagamento: cash (paper, carta) o carta di credito (plastic, plastica). Senza abbasssare lo sguardo risposi prontamente : “Plastic!” e il giovane cominciò a infilare la mia spesa in sporte di plastica. Potevo scegliere insomma tra carta e plastica. Non potei non restare ammirata dalla perfetta organizzazione americana: non solo imbustavano la mia spesa ma lo facevano anche con un ordine preciso, la carne in una busta, i formaggi in un’altra, frutta e verdura insieme, scatole e scatolette a parte. E in più te la portavano anche alla macchina. Bisogna dirlo, un vero esempio di civiltà!
In tutta onestà bisogna anche ammettere che non tutti i supermercati americani sono come il mio primo. Ce ne sono di meglio e di peggio.
Migliori sono considerati quelli delle zone più ricche, come Gelson’s, (il Re dei supermercati) o Whole Foods, il simbolo del “gastronomically correct”, dove tutto è rigorosamente organico: in quello di Berkeley, forse la cittadina più politically correct del mondo, ci sono addirittura massagiatori pronti a rimetterti a nuovo se una sosta troppo prolungata alle casse ti ha appesantito i muscoli della schiena. Sono invece erroneamente schedati come peggiori quelli dei quartieri poveri, come l’armeno dove mi rifornivo della verdura meno cara e più fresca di Los Angeles, o il cinese che aveva la più ricca e la migliore qualità di pesce della città.
Per fare una spesa decente dovevo perciò battere in una giornata 4 o 5 diversi supermercati il che comportava un notevole dispendio di tempo e benzina ma sicuramente una dispensa più ricca. Armata di tutto punto ero perciò pronta a mettermi ai fornelli e a dare così iniziò alla mia nuova vita americana, nell’attesa che arrivasse il resto della mia famiglia. “
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