DA: “COSI’ MANGIAVAMO” DI STEFANIA APHEL BARZINI-EDIZIONI GAMBERO ROSSO.
“Nell’ Italietta di fine anni ’50 anni si scoprono le gite domenicali e le vacanze estive.
Anche la mia famiglia, nel suo piccolo, faceva le stesse scoperte. La domenica, insieme a migliaia di Romani, si raggiungeva il mare con qualsiasi mezzo, autobus, trenini, lambrette, vespe, automobili, per dedicarsi ad un nuovo entusiasmante gioco di massa, quello del pic nic.
Dalla citta’ partivano carovane armate fino ai denti, cariche di piatti e stoviglie, sedie a sdraio e tavolini pieghevoli, radioline e coperte, e soprattutto di cibi cucinati a casa e poi trasportati nei portapranzi di metallo. Dentro c’era di tutto: rigatoni al sugo, frittate e verdure stufate, panini e pagnottelle, spaghetti e polpette. I piu’ abbienti, quelli che se lo potevano permettere, invece andavano in trattoria. Noi avevamo adottato un sistema misto: “fagottari” al mare e trattoria per le gite in campagna. A non mancare mai nei nostri pic nic domenicali erano i panini con la frittata, squisitezza oggi quasi completamente dimenticata, sui quali si spalmava inevitabilmente un mix di crema solare e granelli di sabbia che conferivano ai sandwich gusti e consistenze nuove e inesplorate. In quelle occasioni ciascuno sbirciava l’ombrellone del vicino alla ricerca di confronti gastronomici: quello beve il vino, l’altro ha il pollo, l’altro ancora il panino con il prosciutto crudo, segno inequivocabile di ricercatezza e benessere. Per tutti poi, ricchi e meno ricchi, il pasto si concludeva con il cocomero, quello con cui, come suggerivano i baracchini lungo la Via del Mare: “ Magni, bevi e te sciacqui er grugno!”. Dopo pranzo, mentre sotto il sole giaguaro si diffondevano le voci un po’ stentoree dei radiocronisti dell’epoca a commentare le azioni della squadra del cuore, da tutta la spiaggia si alzava un unico grido: “ Bruno! Rosa! Marco! Assunta! Nun te bagna’ che te vie’ la congestione!”. Quella congestione che per anni ha incarnato l’incubo di ogni mamma italiana durante la stagione calda.
Le vere emozioni pero’ erano quelle dei mesi estivi: le vacanze, che per noi si trasformavano in veri e propri traslochi. La carovana formata da mamma (i mariti degli anni ’50, come recitava anche una canzone del periodo, restavano in citta’), tate, e noi quattro fratelli (l’ultimo non aveva ancora visto la luce), partiva dotata di tutto punto, biancheria, giochi, viveri, palette e secchielli. Le destinazioni, a giudicare da cio’ che ci portavamo appresso, dovevano, a chi ci osservava, sembrare esotiche e remote. Invece cosi’ bardati si raggiungevano Ostia, Anzio o Ladispoli.
Di quelle vacanze sono soprattutto gli odori ad essere registrati nella mia memoria: quelli del pesce e della pizza rossa calda di forno che avvolgevano il porto di Anzio, o quella del fritto di mare che si allungava per le strade di Ladispoli. A Ladispoli, allora un paesotto di villini finto liberty con una lunga spiaggia di sabbia nera e un mare( e giuro che e’ la verita’) ancora limpido e trasparente, i miei genitori avevano un folto gruppo di amici che d’estate si trasferiva in case e casette acquistate o fatte costruire con i primi soldi del benessere. Mio padre, credo il piu’ “povero” del gruppo e sicuramente il piu’eccentrico, la casa al mare se l’era fatta recapitare gia’ bella e pronta. Aveva infatti acquistato un terreno sulla spiaggia e ci aveva collocato sopra “La Cicogna”, una palafitta di legno con lunghe zampe in ferro, il primo modulo di casa prefabbricata. Piu’ che di una vera abitazione si trattava di un bizzarro nido d’aquila composto da un solo piccolo ambiente completo pero’ di ogni necessita’, cucinino, soggiorno-pranzo, bagno, letti, estraibili e a castello. Mi piaceva moltissimo sia per la dimensione lillipuziana che per l’esaltante possibilita’ che mi offriva di dominare il mondo circostante.
Gli amici dei miei naturalmente, come allora usava, erano provvisti di un illimitato numero di figli. Formavamo vere e proprie bande scatenate che conducevano una vita a se’ stante: giocavamo, mangiavamo, dormivamo, ad orari completamente diversi da quelli degli adulti. I due mondi si incontravano sporadicamente in occasione di grandi abbuffate.
Erano gli ultimi anni del decennio, quando mangiare, e tanto, era diventato di fatto il simbolo e la dimostrazione della sopraggiunta prosperita’. Percio’ gli adulti si scatenavano. Ci si riuniva quasi sempre nella villa del piu’ anziano del gruppo, l’autorita’ indiscussa del clan. Sua era la casa piu’ grande, ad eccezione del delirante castello merlato che uno di loro si era fatto costruire in riva al mare. L’ampio locale, nato come garage, era stato trasformato, con una parola allora assai di moda, in “tavernetta”, quindi arredato con tavoli e sedie e provvisto di forno a legna che produceva gigantesche quantita’ di lasagne al sugo e soprattutto eserciti di polli arrosto accompagnati da patate, piatto che si apprestava a divenire, nel decennio successivo, il vero emblema di migliorate condizioni economiche e di raggiunto status sociale. Ad impressionare non era tanto la qualita’ dei piatti quanto l’abbondanza dei cibi. La guerra era veramente finita e l’Italia celebrava entusiasta. Piu’ che un popolo di buongustai, (parola oggi scomparsa, per lasciare il posto alla piu’ “raffinata” ed esotica “gourmet”) eravamo allora una variopinta moltitudine di grandi mangiatori.
Ogni tanto poi ci si riuniva a pranzo alla Trattoria di Palo, nell’entroterra a pochi chilometri dal mare. Nella mia memoria quello resta un posto di allegria del palato. Piatti semplici e per quanto mi riguardava, sempre assolutamente identici. Avevo infatti sviluppato una curiosa ossessione gastronomica che mi portava, una volta individuato un piatto che mi piacesse particolarmente, a riordinarlo all’infinito, giorno dopo giorno, senza alcuna modifica. Non era (e non e’, perche’ a tutt’oggi resta una delle mie, spesso criticate, abitudini) una mancanza di curiosita’. E’ solo che se un piatto mi emoziona, quel sentimento mi piace reiterarlo all’infinito, fino a scoprirne l’anima, per poi, una volta che cio’ accade, abbandonarlo senza piu’ guardarmi indietro. Fettuccine burro e parmigiano, sogliola alla griglia e le migliori patatine fritte della mia vita, erano quello che, insieme ai carciofi alla romana, ordinavo con tenace abnegazione pasto dopo pasto. Ancora oggi questo semplice menu rappresenta per me quello che gli Americani chiamano “Confort Food”, il cibo dell’infanzia, quello che rassicura e conforta nei momenti bui o tristi della vita”.
No Comments