I SAPORI SEMPLICI DELLE EOLIE

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I SAPORI SEMPLICI DELLE EOLIE

DA “A TAVOLA CON GLI DEI- RICETTE E MEMORIE DELLE ISOLE EOLIE”-STEFANIA APHEL BARZINI-GUIDO TOMMASI EDITORE.

 

Di ritorno dal mio viaggio raccontai ai miei genitori le meraviglie dell’isola che avevo cosi’ fuggevolmente lambito.  Il mio trasporto deve essere stato tale da incuriosire i miei.  Decisero di partire.  Tornarono entusiasti.  Soprattutto mio padre, che pure faceva parte del gruppo “quelli che non amano le isole” (una volta mi confesso’ di avere avuto crisi d’ansia persino a Londra, e si’ che l’Inghilterra e’ grande!), sembrava essere posseduto dal “demone del vulcano” a tal punto che aveva deciso di voler acquistare una casa.  Sarebbe stata “il nostro rifugio” percio’ decidemmo di passare la Pasqua a Stromboli alla ricerca della casa ideale.  Ci imbarcammo tutti quanti, fratelli e genitori, sul traghetto che partiva da Napoli.  Il primo di molti viaggi avventurosi.  La nave era un vecchio ferro arruginito, le cabine bassi cunicoli senza aria, e il ristorante self-service proponeva un menu che sarebbe restato immutabile negli anni.  A tutt’oggi la situazione non e’ un granche’ cambiata, il vecchio traghetto e’ stato degradato a percorsi tra le isole, al suo posto ce ne e’ uno piu’ grande a sua volta retrocesso(una volta navigava tra Ancona e Spalato).  Le cabine sono piu’ spaziose e accoglienti,  il cibo e’ identico: cotoletta alla milanese accompagnata da patate bisunte, pescetti fritti dall’aria stantia e l’immancabile pesce spada alla griglia, un’immangiabile suola di scarpe.

Quello che non avevamo previsto e’ che Eolo si sarebbe scatenato in tutta la sua potenza.  La Pasqua, scoprii negli anni seguenti, e’ un periodo bizzarro alle Eolie.  Potevi trovare un clima estivo e un sole abbagliante, o al contrario, e accadeva spesso, burrasche paurose, pioggia e vento; e i venti erano spesso i peggiori, soprattutto il Libeccio e il Ponente, una micidiale combinazione, tanto che i pescatori dicono :” Punenti e Libici, mai bene fici! Libecci, maledetto, chene bene dici”.  Maledetto sia chi parla bene del Libeccio.  Quella che sconquassava il vecchio traghetto era un burrasca bella e buona, il vento soffiava e urlava forte, onde enormi scuotevano la nave che gemeva come un vecchio artritico.  I passeggeri erano tutti rinchiusi nelle cabine dalle quali ogni tanto un gemito riusciva a sovrastare il rumore della tempesta.  Stromboli era la prima fermata e ci apparve nera e imponente nell’alba livida.  Allora non esisteva ancora il molo nuovo e percio’ si scendeva a terra con il “rollo”,una barca a remi (il nome deriva dal rollio provocato dal mare agitato),  che si accostava al traghetto per trasportare uomini e bagagli e a volte anche animali.  Negli anni ho visto capre, muli e anche mucche imbragate e fatte calare dal ponte della nave!  I “rollisti”, i marinai di bordo erano espertissimi a manovrare con i remi e malgrado le onde ci sbatacchiassero come fuscelli al vento riuscimmo ad arrivare a terra.  Pioveva e ci incamminammo subito verso la Pensione San Domenico dove avevamo prenotato vitto e alloggio.  La pensione San Domenico in realta’ non era affatto una pensione.  Si trattava della casa troppo ampia di tre sorelle zitelle che ne affittavano le stanze con scarsa convinzione. Il motivo per cui non avevano trovato marito era ahime’ palese: le povere signorine non solo erano di ineffabile  bruttezza, basse e sgraziate, ma a peggiorare la situazione si aggiungeva anche una coltre di pelo da far invidia ad un cinghiale.  Mai in vita mia avevo visto baffi e barba di quella portata. La pensione  naturalmente non aveva riscaldamento e i letti erano umidi e freddi.  Le signorine ciabattavano per casa tutto il giorno sospirando di tanto in tanto come se avessero avuto mille cose di cui occuparsi.  In realta’ passavano la giornata chiacchierando tra di loro in dialetto e cambiando in continuazione acqua e fiori di un polveroso altarino che faceva bella mostra di se’ nella stanza da pranzo.  C’erano moccoli, vasi e una quantita’ stupefacente di fotografie di parenti defunti.  Certamente comunque non era la cucina il loro hobby favorito. Il menu di quella settimana non subi’ mutamenti di sorta: polpette di pane in brodo per primo, palle di pane salate fritte per secondo, palle di pane dolci fritte per dessert.  Anni dopo ho riconosciuto nei maldestri tentativi delle tre sorelle alcuni dei piatti migliori della tradizione eoliana: l’nchiume (le polpettine di pane cotte nel brodo, un piatto fatto di ingredienti poverissimi ma dal sapore straordinario), gli sfinci salati e gli sfinci dolci.

 

In aggiunta al succitato altarino, ad occupare le giornate delle tre zitelle ci pensava Jimmy.  Un cane e l’unico maschio ad avere accesso alla casa.  Jimmy era un bastardone a pelo rossiccio, uno dei tanti cani meticci delle Isole.  Trascorreva gran parte della giornata dormendo e nei rari momenti di veglia consumava enormi quantita’ di cibo. Le sorelle lo accudivano con commosso entusiasmo, studiavano ogni sua mossa, peraltro scarsa, e ne parlavano con rispetto misto a venerazione, lanciandosi sguardi di intesa e frasi sibilline, finche’ incuriosita, un giorno domandai il perche’ di tante attenzioni verso un animale che in fondo non sembrava riversare su di loro un affetto particolare. Mi fissarono con aria seria, come per decidere se potevano fidarsi, poi dichiararono con un’ autorevolezza che non temeva smentite:  “Chistu cani parla!”  .  “ Ah davvero…… e cosa dice? “ risposi con una risatina secca.  Le donne non scherzavano affatto e fissandomi negli occhi con aria di sfida mi raccontarono che in un piovoso pomeriggio invernale, Jimmy, svegliandosi dal suo pisolino pomeridiano aveva sollevato la testa, si era guardato intorno, aveva osservato a lungo le tre zitelle per poi chinare nuovamente il capo sulle zampe e mormorare con un lungo, sconsolato sospiro “ Madonna mia!”.  Non ebbi il minimo dubbio: il cane parlava, era del tutto credibile.  Se il cane avesse pronunciato un’altra qualsiasi frase non ci avrei creduto neanche per un istante ma sembrava assolutamente comprensibile ( nonche’ condivisibile) che il poveretto, data la situazione, avesse potuto avere un momento di sconforto.  Non so se Jimmy abbia piu’ parlato, le tre donne sono ormai morte e hanno portato il loro segreto nella tomba.  Con il passare degli anni, una delle tre ebbe delle improvvise furie erotiche, tanto che le sorelle la tenevano rinchiusa in casa.  Ogni tanto, di notte, la poveretta riusciva a fuggire e a correre in spiaggia, completamente nuda urlando alla luna come una lupa in amore: ”Voglio un uomo!” con quanto fiato aveva in gola.  E’ inutile dire che nessuno si e’ mai fatto avanti.

Durante il giorno, malgrado il tempo inclemente, ci si dedicava alla ricerca della casa.  Eravamo stati presi in gestione da un isolano che ci portava in giro per vicoli ma che sembrava interessato a vendercene soprattutto una, un piccolo cubo vicino alla spiaggia con vista su una ciminiera e spazi troppo piccoli per accomodarci tutti.  In questi nostri vagabondaggi passavamo sempre davanti alla casa piu’ importante dell’isola: quella dove avevano vissuto Rossellini e la Bergman durante le riprese del film “Stromboli, terra di Dio”.  Doveva, quel film, aver rappresentato un momento di vera gloria per l’isola a giudicare dall’orgoglio con cui, ogni giorno, ci veniva indicata la piccola casetta rosa, quasi si trattasse della reggia di Caserta.  Piu’ ci addentravamo nei meandri dell’isola, tra bouganvillee e fichi d’India, e piu’ ci accorgevamo di amarla.  La casa pero’ non si trovava.  Stavamo per rinunciare sconsolati quando il nostro “broker” isolano ci disse con aria un po’ esitante che c’era ancora una casa da vedere, e si’, era grande a sufficenza per tutti noi pero’ era un po’ strana, aveva dei dipinti…. e insomma avremmo giudicato noi stessi.  La casa era a Scari, nella parte piu’ popolare dell’Isola, quella vicino al molo.  I villegianti preferivano Ficogrande o la piu’ aristocratica Piscita’all’altro capo del paese.  Dalla strada principale partiva uno stradino in salita che si interrompeva bruscamente davanti ad un cancelletto di legno che si apriva su un giardino incolto tra le cui erbacce si levava un grande fico mezzo inselvatichito.  Qualche gradino portava ad un grande patio rettangolare, il “bagghiu” coperto da un’incannucciata.  La casa era l’ultima del paese, piu’ in alto, dietro a noi, solo il vulcano e su un lato a dividerci dalle altre case una piccola vallata di canne.  L’architettura era quella tipica eoliana, due cubi uno in fila all’altro e una scala esterna che portava al piano di sopra dove erano due stanze e la cucina. Una delle stanze di sotto era adibita a magazzino, l’altra doveva essere stata la “stanza del vino”, il letto era infatti ricavato dal “ palmento” una grande vasca scavata nella pietra dove si raccoglieva e si pestava l’uva con un geniale  sistema di torchiatura che permetteva a poche persone di fare il lavoro di molti.  Due scalini portavano ad una piccola stanzetta nel retro che prendeva ombra dall’albero di gelso piu’ grande che avessi mai visto.  Ma le vere sorprese arrivavano al piano di sopra.  Le pareti del soggiorno e della stanza da letto erano state infatti interamente affrescate dall’ex proprietario di casa, un pittore tedesco con evidenti disturbi psichici.  C’erano diavoli cornuti, un improbabile, coloratissimo Ulisse e soprattutto uno spiegamento di corpi nudi che fluttuavano tra alghe e lividi  paesaggi subacquei. Stranamente pero’ quell’insieme cosi’ delirante aveva un vago effetto ipnotico su chi ci abitava, piu’che in una stanza sembrava di essere in un gigantesco acquario dove i suoni arrivavano smorzati e ovattati.  E poi c’era la cucina.  Una tipica cucina eoliana, antiche maioliche blu e verdi, il “cufularu”, quello che altrove e’ la cucina economica, con tre fuochi e in basso un buco quadrato chiuso per il carbone di legna.  Su una parete c’erano due antichi forni, il piu’ grande per il pane e l’altro per i dolci.  Quei forni noi non li abbiamo mai usati: noi figli troppo giovani per apprezzare quegli antichi gioielli e i genitori venivano esclusivamente d’estate quando il caldo era tale che a nessuno sarebbe mai venuto in mente di accendere un forno a legna.  Ed e’ stato un vero peccato perche’ la panificazione nelle Isole ha sempre avuto un ruolo importantissimo.  Fino a meta’ degli anni ’60 il pane infatti si faceva in casa e i forni venivano definiti a seconda della quantita’ di pani  che potevano accogliere: c’erano quelli da venti chili, quelli da trenta e i piu’ grandi da cinquanta.  Preparare una simile quantita’ di pane era un evento che accadeva una volta al mese e impegnava tutta la famiglia.  Naturalmente i rituali erano immutabili e codificati.  Si iniziava con la pulizia del forno che veniva spazzato accuratamente con l’inula viscosa o la pulicara come viene chiamata nelle Isole dove cresce spontanea.  Se ne facevano mazzi con cui si ramazzavano i forni probabilmente non solo perche’ la pianta era particolarmente resistente al fuoco, ma anche perche’ le sue foglie appiccicose eliminavano facilmente polvere e cenere. La pulicara veniva anche messa nei sacchi dei legumi e dei cereali perche’ teneva lontano i puodduli e i papuzzi, pidocchi e parassiti.  Prima di infornarle le pagnotte venivano benedette segnandole con tre croci e poi si pronunciava una formula magica che avrebbe reso il pane morbido, croccante e simile ad una rosa:

“Crisci e’ biddisci

comu l’occhi di li pisci

Cori di Gesu’ e Santa Rosa

fallu veniri comu na rosa”

 

Le pagnotte venivano poi messe in forno quando quest’ultimo raggiungeva la giusta temperatura, vale a dire quando le pietre diventavano bianche.  Una volta che pane era pronto se ne consumava solo una piccola parte, il resto veniva rimesso in forno a “caliare”, in pratica lo si continuava a cuocere per ore nel forno tiepido.  Una volta pronto il “pane caliato” veniva conservato in sacchi di tela e consumato in mille modi diversi.  Una volta il caliatu era simbolo di poverta’ e miseria, oggi invece le stesse ricette sono improvvisamente diventate il massimo della ricercatezza!”.

 

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