Viviamo anni di mode, di trends, di tendenze, che durano quindici minuti e poi spariscono per sempre, salvo poi tornare, camuffate sotto altro nome, molti anni dopo. E’ così anche nel mondo del cibo e della cucina. L’ultima moda gastronomica arriva, sembrerebbe, dai paesi anglosassoni, Stati Uniti e Gran Bretagna, e si chiama Comfort Food, il cibo che conforta, che rassicura, questo è anche il titolo dell’ultima fatica letteraria dell’ubiquo e famosissimo chef inglese Jamie Oliver, appena arrivata nelle librerie italiane. Ma siamo certi che il comfort food sia poi un’invenzione tutta anglosassone? E soprattutto così recente? Perché come chiamare allora la francesissima madeleine? Quel dolcetto di burro a forma di conchiglia che a Proust bastò intingere nel tè per far tornare in mente i bei ricordi dell’infanzia? Non era quello forse il primo e più famoso esempio di comfort food letterario?
Il fatto è che forse bisognerebbe capirsi sul significato della parola comfort food. Cibo che conforta dunque, che consola, che riporta a gioie infantili, ad un passato sereno, cibo che comunica benessere a chi lo cucina e a chi lo mangia, cibo che rassicura, che porta gioia, felicità, che rimuove stress e dolori. Un cibo insomma dai poteri quasi magici.
Intanto mi sono sempre chiesta se questa definizione abbia realmente senso, voglio dire il cibo non dovrebbe sempre portare gioia, confortare, comunicare benessere? Non dovrebbe essere questo il suo ruolo? Conoscete qualcuno che sia ghiotto di cibo infelice, che comunica tristezza e disperazione? E quale sarebbe questo cibo?
L’altro quesito che mi pongo è come individuare il comfort food, immagino che ciascuno di noi, in qualsiasi paese di questo nostro mondo abbia un “cibo confortante”, diverso, il mio per esempio, anzi i miei, sono la pastina in brodo e gli spaghetti burro e parmigiano. Immagino che ad un cinese o ad un arabo la mia pastina non faccia lo stesso effetto.
E’ forse per questo che non capisco bene il senso del libro di Jamie Oliver. Un bel libro, non c’è che dire, e suppongo che le ricette siano anche buone, forse non proprio tutte, su il koshari al forno, un pasticcio di pasta e riso mescolato con lenticchie, feta, uova, ceci e pomodori, o sui maccaroni e formaggio all’aragosta qualche perplessità ce l’avrei, ma il problema non è il gusto, il problema è capire a chi sono di conforto queste ricette, che sono più di 100, tante, troppe. Davvero Jamie Oliver si conforta a colpi di filetto alla Wellington, stufato ghanese alle arachidi, pierogi polacchi e bun cha (un piatto vietnamita)? Ma più ancora, per me il comfort food ha una sola irrinunciabile caratteristica: deve essere facile, facilissimo, deve essere il contrario di qualsiasi cibo fighetto da chef, deve essere fatto senza fatica, senza doversi preoccupare che sia perfetto, esteticamente o gastronomicamente corretto, deve insomma essere un piatto che non ci stressi mentre lo facciamo. Ora vi assicuro che fare un bue alla Wellington come si deve non è cosa semplice e preparare lo Shawarma di Pollo richiede due giorni di griglie, barbecue, spiedi, senza contare le focacce e le salse di accompagnamento.
Insomma quelle di questo libro sono in genere ricette piuttosto complesse, ora io non dubito che al nostro inglesissimo chef tutti questi piatti piacciano e siano di conforto però mi sembra anche tutta l’operazione sia un’astuta mossa di marketing, e posso anche capirne i motivi.
Il comfort food infatti non corrisponde ai canoni richiesti dall’odierna editoria gastronomica, che il cibo cioè sia sexy, attraente, colorato, in altre parole, e con un’orribile parola che oggi va molto di moda, glamorous. Il comfort food, quello vero, quello di noi comuni mortali è invece un cibo un po’ sfigato, poco appariscente, difficile rendere sexy la minestrina in brodo o gli spaghetti burro e parmigiano e dunque che doveva fare il povero Jamie?
Gli restava solo di buttarsi sulle lasagne all’anatra croccante. Però forse avrebbe potuto semplicemente titolare il libro in altro modo, che so, “Il Cibo che piace a Jamie Oliver”, perché io penso con infinito orrore a quei tapini che, in una fredda giornata invernale decidono di farsi confortare dal comfort food di Jamie Oliver e si apprestano a cucinare le Kielbasa, salsicce polacche, senza immaginare, i miseri, che gli toccherà scavare una buca profonda 15 cm e larga 60, che la dovranno riempire con legno di quercia, che si dovranno procurare un palo dal diametro di 2 centimetri e un bidone di latta, che avranno bisogno di pietre, fango, tappi di sughero e trucioli bagnati e che dovranno lavorare per circa 5 ore. Ognuno, certo, è libero di usare il proprio tempo libero come preferisce, a voi dunque il comfort food di Mister Oliver e le sue Kielbasa. Io però mi accontento dei miei spaghetti burro e parmigiano e di una ciotola fumante di minestrina in brodo.
Grande Stef!
…della serie “lo famo strano?”
E se il “famo” diventa “fame”, quella vera, tutte queste nuove architetture culinarie vanno a farsi benedire, impiattamento compreso!
E con tutto il rispetto per il Gotha dei Nobili Gastronomi…gli spaghetti burro e parmigiano sono una vera prelibatezza per le papille e per lo stomaco.
E saperli fare, ma fare bene, è Arte Vera!