DA:”LA SCRITTRICE CUCINAVA QUI-STEFANIA APHEL BARZINI-EDIZIONI GRIBAUDO”
” Le cose alla piantagione cominciano a prendere una brutta piega e se dovessero peggiorare, pensa, può sempre diventare chef e aprire un ristorante in qualche albergo africano. Mr. Perrochet é così impressionato dall’abilità della scrittrice ai fornelli da proporle addirittura una partnership, questo é almeno ciò che racconterà Karen agli amici. A testimoniare comunque della sua passione per la nobile arte della cucina restano le sue ricette, quella del croccante al cioccolato per esempio, una delle sue golosità preferite, e gli elenchi di pietanze che avrebbe voluto cucinare come quello che annota sul risvolto di Fiesta, il romanzo di Hemingway, che recita: frittate, risotto, pasta. E non si tratta certo di un segno di disprezzo per lo scrittore americano al quale invece si sentirà sempre particolarmente vicina. Così vicina, che quando nel 1913 il barone Bror von Blixen-Finecke, il cugino con il quale nel frattempo si é fidanzata, le propone di partire insieme per l’Africa e acquistare una fattoria dove vivere lontani dalla civiltà, non se lo fa ripetere due volte. E’ il sogno che si avvera, lo stesso di suo padre, vivere una vita avventurosa, ricca di emozioni a contatto con la natura selvaggia. La coppia compra una piantagione di caffè vicino a Nairobi, ai piedi delle colline di N’Gong: “In Africa avevo una fattoria ai piedi degli altipiani del Ngong. A centocinquanta chilometri più a nord su quegli altipiani passava l’equatore; eravamo a milleottocento metri sul livello del mare. Di giorno si sentiva di essere in alto, vicino al sole, ma i mattini, come la sera, erano limpidi e calmi, e di notte faceva freddo”. Così la descrive la Blixen ne La Mia Africa. Caffè perché “Coltivare caffè é la sola cosa che abbia un futuro, il mondo grida per il caffè africano”, afferma Bror. I due si sposano a Mombasa e dopo il matrimonio il Governatore, Sir Henry Belfield, mette a loro disposizione la sua carrozza ristorante mentre un milionario americano, Sir Nothrup Macmillan, offre il suo cuoco. La cena di nozze é perciò consumata con l’accompagnamento delle ruote sferraglianti e del tonfo sordo delle rotaie. I due brindano con lo champagne, in pigiama, i pori che si contraggono nel calore africano.
La vita alla fattoria sarà certo avventurosa ma anche faticosa e difficile. Fin da subito é chiaro che il barone é assai più interessato alle grazie muliebri e alla caccia grossa che al buon andamento della fattoria, tocca perciò a Karen occuparsene e non é certo un compito da poco. La Blixen gestisce la piccola comunità di indigeni, si occupa della scuola serale, fornisce cure mediche, pianta un orto che le regala erbe e verdure da usare in cucina, quella cucina che resta il suo regno, terra di sperimentazioni e sorprese. Sono tanti i cuochi che si avvicendano ai fornelli della fattoria. Ad iniziare da Ismail, il somalo, un vecchio gentile e ricco di buon senso il cui repertorio in cucina é però limitato e volgare, almeno per gli standard della Baronessa, soprattutto per quello che riguarda i dessert, colpa, probabilmente della padrona precedente, un’inglese, e gli inglesi, si sa, non hanno certo un rapporto facile con il cibo. Così Karen si applica, non solo insegna a fare soufflè, meringhe, torte, flans con la panna ma chiede anche a sua madre di mandarle un libro di ricette che sia compatibile con la sua cucina africana così poco attrezzata. A Ea e Ella, le sorelle, scrive poi una lunga lettera in cui prende in giro, con molta ironia e malgrado le lezioni di cucina prese in Svizzera, la sua poca abilità nelle faccende di casa, che termina affermando: “ Non sposatevi prima di aver imparato a cucinare!” Come dire, l’arte é importante certo, ma senza pancia si va poco lontane! C’é poi Farah, il prezioso factotum, l’anima della casa, che si occupa di tutto, guida le stalle, fa la spesa, tiene i rapporti con i negozianti e i fornitori, tanto che poi aprirà la sua dukka, una piccola drogheria che lo farà diventare ricco. Quando Farah lascia Karen per andare a visitare la sua famiglia lontana, arriva un altro cuoco. Per lui niente manicaretti speciali, piuttosto Tanne, forse nostalgica del cibo di casa sua, lo istruisce nella cucina danese, pancakes e cavoli imbottiti che diventeranno una specialità della casa e una vera sorpresa per gli amici scandinavi in visita. Anche questo cuoco però ha vita breve, nel vero senso della parola, perché la giovane moglie penserà bene di avvelenarlo. In cucina resta il suo aiutante, il piccolo Kamante, tredici anni, il Cenerentolo della fattoria, che lava i piatti, spazza per terra, si occupa dell’acqua. Il ragazzino, come non bastasse, é denutrito e ha una brutta malattia ad una gamba. La scrittrice lo cura e lo accudisce come un figlio, lo sfama a riso e zucchero, lo medica con unguenti e pomate, lo manda all’ospedale e quando torna, finalmente guarito, non lo molla un istante finchè non scopre il suo vero talento segreto: Kamante é nato per stare ai fornelli: “ In cucina, nel mondo culinario, Kamante ha tutti gli attributi del genio” scrive. Ma il talento da solo non basta, ci vogliono anche tecnica e educazione. Karen non ci pensa su due volte e lo manda, in uno dei suoi slanci grandiosi, a studiare nelle cucine del Norfolk, del New Stanley e del Muthaiga Club, i più raffinati locali africani. Quando torna alla fattoria il ragazzo è pronto per il debutto. I suoi primi successi sono le torte e il primo libro di cucina su cui si applica é The Sultan’s Cake Book. Ma il vero trionfo é il pranzo di Natale, una grande festa danese, c’é l’albero decorato, il tacchino arrosto, il porridge di riso e piccole torte di mandorle. Da questo momento il ragazzo diventa l’ombra di Tanne, insieme vanno a raccogliere funghi, insieme fanno la spesa, insieme fanno conserve e marmellate. Kamante sarà uno dei pochi uomini della sua vita a non abbandonarla, a non lasciarla sola. Di lì a poco infatti sarà la volta del marito ad andarsene non senza lasciarle un ultimo, affettuoso, pensiero. La sifilide, che la perseguiterà per il resto dei suoi giorni. Dopo il divorzio la scrittrice torna brevemente in Danimarca, dalla madre, la malattia é ormai conclamata e la ricoverano in ospedale, quando ne esce sarà Ingeborg a curarla, a nutrirla con pane di segale, scampi e quel formaggio di capra che ha tanto sognato in Africa. Riprende anche le vecchie abitudini, trascorrere il suo tempo in cucina, bevendo caffè e spettegolando con la servitù che adesso la chiama Baronessa. Ma é un breve intervallo, l’Africa la richiama a sé. Karen é testarda, lo é sempre stata. La fattoria langue, non é quello il luogo giusto per coltivare caffè e adesso ci si mette anche la siccità, ma la scrittrice non si dà per vinta. Quella terra difficile e selvaggia le é entrata nel sangue, é la sua terra, e lei non ha nessuna intenzione di rinunciarci solo perché il raccolto é scarso. “Mi sentivo in perfetta comunione con l’universo, ero contemporaneamente l’erba del prato, l’aria che respiravo, le montagne invisibili e i buoi stremati, insieme agli alberi respiravo il vento della notte”. Quando si diventa tutt’uno con il mondo circostante poi é difficile farne a meno. E poi adesso nella sua vita é entrato Denys Finch Hatton, inglese, aristocratico e grande cacciatore. L’uomo perfetto per Tanne, quello che racchiude in sé tutte le virtù che ha sempre apprezzato: coraggio, curiosità, raffinatezza. E con lui la scrittrice é davvero felice. Sono gli anni dei grandi safari, vere stragi di animali, cervi, zebre, cinghiali, marabou e soprattutto leoni, la passione di Karen, che li osserva mentre vengono scuoiati con un misto di ammirazione e di invidia: senza un minimo di grasso superfluo, arrogantemente perfetti, così come vorrebbe essere lei, nell’arte, nella vita e nel corpo. Alla fine di quelle giornate ricche di eccitazione, la coppia fa grandi falò poi, seduti nell’erba della savana pasteggiano con carne arrostita, uvetta, mandorle, il vino a far loro compagnia e in sottofondo la musica di Schubert che suona su un vecchio fonografo. Nel cielo gli avvoltoi volano in cerchi concentrici, aspettando il loro turno. Tanne sente il cuore leggero che vola nell’aria come un aquilone. Ma non sono solo rose e fiori, ci sono anche le spine. E fanno male. Perché Denys é come uno di quegli animali selvaggi che tanto ama cacciare. Inafferrabile. Difficile da ingabbiare. Arriva, riparte e Karen non sa mai quando tornerà. Il rapporto con lui non é solo passione, desiderio. E’ molto di più. E’ quella connessione mistica, quell’estasi che la scrittrice ha cercato per tutta la vita. Lei ne é consapevole al punto che delle sue lunghe assenze scriverà: “Se va a finire che lui é l’unica cosa che posseggo nella vita, diventerà una fame”. Ecco, quella fame di cibo che lei ogni giorno castiga, si é trasformata in un altro tipo di appetito, non meno doloroso e temibile della prima. Ma Denys torna sempre e basta la sua presenza a farle dimenticare ubbie e tormenti. Ad ogni arrivo Karen fa preparare i suoi piatti preferiti, la clear soup, il perfetto consommé di Kamante. Una zuppa, afferma la Blixen, che per essere davvero buona deve assomigliare alla bella scrittura: “Bisogna tenere lo spirito e lasciare la sostanza”. E’ fatta di carne, verdure a radice, e ossa. Sottomessa al fuoco e alla pazienza. E la chiarezza arriva alla fine, come un trucco magico. Quando, dopo 24 ore che cuoce, viene chiarificata con i gusci dell’uovo. Con il cibo, se non nella vita, é quantomeno possibile raggiungere l’essenzialità tanto agognata. Insieme Denys e Tanne, che non é mai stata una grande bevitrice, sorseggiano l’amato claret, e giocano, paragonando al vino i loro amici: un certo americano é come un cattivo claret, quella signora mondana é un champagne rosè. Il vino é anche un modo di negare il puritanesimo che tanto aborre e così quando la madre le scrive lamentando che Thomas, il fratello prediletto, beve troppo, lei risponde che lui ha il diritto di bere tutto lo champagne che vuole, perché la loro famiglia non ha la capacità di godersi l’esistenza, non ha nessuna inclinazione per il vino della vita, per loro l’umana felicità é una dieta di toast al latte. E il vino é anche una importante pietra di paragone, che può raccontare altro, l’età, l’invecchiamento per esempio: “L’età é il più grande test per tutti, come con il vino. Solo una grande vendemmia può sopportare l’età. E’ così per le persone e per l’arte. Le vendemmie mediocri bisogna berle subito, senza illusioni, e vanno giù bene. Ma quelle veramente buone acquistano charme e merito con la maturità. Finchè il vino é fresco infatti nessuno realmente conosce il suo valore, ma dopo 20 o 50 anni, allora sì che si mostra in tutta la sua complessità!”.
La vita a fianco di Denys é fatta anche di grandi cene, di feste a cui partecipano tutti gli indigeni della piccola comunità, dove per gli adulti c’é liquore di canna a volontà e per i bambini dolci e zucchero. Ma soprattutto c’é la cena, restata famosa, alla quale partecipano tra gli altri Beryl Markham, celebre aviatrice, e il Principe di Galles. Quella cena sancirà definitivamente il genio culinario di Kamante. Si inizia, inevitabilmente, con la clear soup, seguita da un rombo di Mombasa in salsa olandese, prosciutto, cotto nello champagne, pernici con piselli, raccolti dai Masai, pasta con panna e tartufi, e poi verdure, cipolline, insalata di pomodori, torte rustiche ai funghi, il savarin e le granitine con i lamponi dell’orto. Vino e sigari sono affare di Denys. La cena é così speciale che alla fine il Principe di Galles andrà in cucina a congratularsi con lo chef e i suoi assistenti. Ma sono fuochi artificiali. La realtà é che le cose vanno sempre peggio. Il mercato del caffè é crollato, la siccità ha fatto il resto. Tanne scrive alla sorella che burro, latte, verdure, panna e uova sono ormai un ricordo. La piantagione non ha futuro ma la scrittrice quel luogo lo ama e si rifiuta di perdere ogni speranza. A ucciderle quelle speranze, ci penserà la morte. Quella di Denys che il 14 Maggio 1931, di buon mattino, si alza in volo con il suo Gipsy Moth, la sua Falena Zingara, sorvola due volte l’aereoporto di Voi e poi si schianta al suolo, insieme al fedele servitoreKamau. Sulla sua tomba, nelle Ngong Hills, le colline che sovrastano il Nairobi National Park, una semplice lapide recita: “ Riposa in pace chi ha ben amato uomini, bestie e uccelli”. Insieme a Denys, per Tanne, muore anche l’Africa. Ora, in quella fattoria selvaggia, per lei non c’é davvero più nulla da fare, se non ricordare. E sono ricordi che fanno molto male”.
No Comments