Dunque la storia va così. Esce la Guida Michelin di quest’anno e toglie una stella a Davide Scabin e al suo Combal Zero. Il popolo del food business insorge gridando allo scandalo con risultati a dir poco esilaranti. Ma tutto ciò in questo nostro iperbolico mondo che consuma tutto in cinque minuti (una volta il buon Warhol ne concedeva 15 di minuti di fama ma i tempi cambiano), è già obsoleto e passato. A commento di questo orrendo misfatto (la decapitazione della stella) ho scritto un post su Facebook, chi ne fosse interessato se lo può leggere lì. In realtà il post prendeva spunto dalla ridicola vicenda per invece ragionare sulle guide gastronomiche. Inutile dire che il mio post non sia stato particolarmente apprezzato da chi le guide le fa. Una vera alzata di scudi in cui gli addetti ai lavori si indignano per ciò che leggono come mancanza di rispetto per il loro lavoro, e dunque i commenti sono del tipo: noi fatichiamo sui nostri computer, lavoriamo duro, non abbiamo sosta. Cosa che peraltro io non mi sono mai sognata di criticare. So benissimo quanto lavoro ci sia dietro ad una guida. Ed è proprio per questo che mi interrogo: tanta fatica per risultati tanto esigui?? Quello che io obiettavo non è il lavoro e la fatica, l’impegno che c’è dietro una guida, ciò che io obietto è il risultato finale, vale a dire la noia su carta. Perchè diciamolo ci sono poche letture al mondo noiose quanto una guida gastronomica, forse solo l’elenco del telefono. Questo è ciò che a me impressiona, la mancanza di sforzo per individuare un linguaggio nuovo, coinvolgente, che davvero racconti, anche in poche parole, la piccola avventura sensoriale che è il mangiare. Coloro che fanno le guide spesso raccontano di quante novità ci siano dietro all’uscita delle medesime, e chi critica viene spesso tacciato di non essere al passo con i tempi, di essere un inguaribile nostalgico. Ma è vero esattamente il contrario, sono le guide a non essersi mai evolute, ad essere restate immobile nel passato. Le guide esistono, e sarebbe bene che finalmente lo si dicesse, solo per pettinare gli ego, che davvero non hanno bisogno di essere pettinati, degli chef e di chi le guide le fa. La cosa importante insomma sono le stelline, le forchette, i cappelli, e la distribuzione dei medesimi. Se davvero a chi fa le guide stessero a cuore le sorti dei semplici clienti di un ristorante di certo si sforzerebbero almeno un po’ per raccontare in maniera meno banale e superficiale il pranzo fuori. E su questo temo che non ci sia molto da discutere, se volete vi faccio qualche esempio di prosa gastronomica da guida così potrete giudicare anche voi.
Guida MICHELIN
Se la terrazza offre un panorama mozzafiato su Roma antica, dal Colosseo sino al cupolone, il nome è un omaggio alla città e agli aromi della cucina mediterranea che qui viene servita: qualche afflato moderno nel piatto, ma gli ingredienti sono prevalentemente locali.
Gli ispettori della guida MICHELIN
“Di grande soddisfazione gli gnocchi alla matriciana. Una trippa da manuale. Ottimo baccalà in guazzetto. Sontuoso il risultato nei piatti. Piatto elegante, voluttuoso, intenso, raffinato. Cucina orgogliosamente romana. A pranzo salumi, insalata e qualche piatto del giorno”. Sono perle prese a caso dalle più famose guide del momento. Sforzo creativo, ne converrete con me, pari a zero. Cosa vuol dire gnocchi di soddisfazione? Trippa da manuale? O piatto elegante e intenso? O che un baccalà sia ottimo? Ottimo per chi? Magari per chi ne ha scritto, non per me e se comunque me lo vuoi raccontare questo piatto dimmene due parole che abbiano un senso, del tipo perchè è buono? Perchè cotto in un certo modo? Condito in un altro? E una trippa da manuale com’è? Trippa di cui nonci viene detto nemmeno come sia stata fatta, alla romana? Toscana? Ah saperlo saperlo. E invece non lo sapremo mai e di fatto avremo comprato e consultato una guida per leggerci un menu accompagnato da disegnini di forchette, cappelli, stelline. Ora questo sistema resta immobile da secoli, le novità se ci sono sono nella proliferazione delle categorie, tanto per premiarne di più e farne contenti il più possibile, e dunque giù con i premi Giovani dell’anno, Piatto dell’anno, Tre boccali, Tre Mappamondi, Pastry chef dell’anno (che poi sarebbe lo Chef Pasticcere ma detto così fa più figo), Miglior pane in tavola, e via mangiando. Un mondo dunque sostanzialmente immobile ma che ogni tanto si fa qualche punturina di botox senza capire che non è che così sembri più giovane, quanto piuttosto invece solo un anziano che si sia fatto qualche punturina di botox. D’altronde i direttori di queste guide sono gli stessi da tempi immemorabili, il ricambio qui non si sa nemmeno cosa sia, a cambiare è solo chi fa il lavoro duro, non certo chi comanda. E se critichi questa spaventosa mancanza di coraggio la risposta è una sola: “Eh per svecchiare ci vuole tempo, i cambiamenti sono lenti, i tempi sono lunghissimi”. Che è poi ciò che avviene nel nostro Paese in qualsiasi campo, un paese dai movimenti elefantiaci. Ma non sarà che questa pretesa elefantiasi non sia solo un modo per non mollare le poltrone??
Cara Stefania, se fosse vero, come dici tu, che nelle guide non c’è sforzo narrativo, non ci sarebbero schede di 2300 battute come questa presa dalla guida per cui lavoro:
“Nel migliore dei mondi possibili, una volta nella vita, tutti dovrebbero poter passare una serata al Don Alfonso, per comprendere, senza sfumature, il significato del termine ospitalità. Ci riferiamo al paradiso creato in anni di lavoro appassionato, a Sant’Agata sui Due Golfi, da Livia e Alfonso Iaccarino, coppia di ferro oggi completata dalla rara professionalità di Mario ed Ernesto: in sala, il primo, con la madre, a dirigere un servizio esemplare, che, con discrezione e sorriso, riesce a far sentire ogni ospite un re; in cucina, il secondo, a continuare con maturità il lavoro iniziato dal padre alla fine degli anni ’70. Un lavoro di avanguardia che, in tempi non sospetti, ha messo in primo piano salubrità, stagionalità e materie prime locali, potenziato dal ’90 con l’avvio dell’azienda agricola Le Peracciole, eden affacciato sul mare di Punta Campanella, che oggi fornisce alla cucina prodotti preziosi più dell’oro: agrumi (in albergo si viene accolti con un acqua e limone detox), extravergine, frutta, ortaggi. Oggetto di studio e corteggiamento nei 5 continenti – il Don Alfonso è presente con consulenze a Marrakech, Macao e Roma -, la famiglia Iaccarino non si ferma nell’evoluzione. Fermi restando i piatti storici e i capisaldi del territorio, apprezzabili nel percorso “La Tradizione” (memorabile lo Gnocco acqua e farina con cuore liquido di scamorza affumicata e pomodorini vesuviani), in menu troviamo creazioni che mostrano come il lavoro di Ernesto sia ormai incanalato su binari in cui talento e tecnica viaggiano con forza ed equilibrio: ortaggi biologici delle Peracciole con gelato di rafano; salsiccia di pezzogna, pistacchi, mozzarella, asparagi e tartufo nero con salsa candida (interpretazione di un antico condimento borbonico); gelato di anguilla, caviale Oscetra, pasta alla rosa canina e battuto di erbe selvatiche: piatto emblematico per freschezza, che rigenera il palato. Una visita alla cantina, ricavata in un suggestivo cunicolo d’epoca pre-romana (dove si affinano pure i formaggi), può far capire, in un’occhiata, quale sia la profondità della selezione enologica di casa. Altra esperienza da fare, la meravigliosa colazione dopo il pernottamento in una delle bellissime stanze. Ma questa è ancora un’altra storia, per cui vi lasciamo con la conferma dei bonus, che qui non bastano mai”. Gambero Rosso, Ristoranti d’Italia 2016.
E per non fermarmi al mio orticello, che ne pensi della guida di Identità Golose che del racconto dei cuochi ha fatto la sua cifra stilistica? Ecco un esempio:
“Il Sanlorenzo è un’isola, staccata dal mondo che lo circonda, Campo de’ Fiori con la sua movida spaccabicchieri che qui non ha cittadinanza; ha una sua lingua e ritmi tutti suoi. Che poi l’isola assomigli tanto a quella di Ponza è per le origini del suadente Enrico Pierri, patròn e chef dell’anima di questa insegna, anche se oggi dietro i fornelli c’è Gabriele Tirabassi.
Questo è un luogo imprescindibile, da anni ai vertici romana nella categoria pesce protagonista, di cui la capitale è avara assai. Il pesce arriva tutto dal Tirreno che bagna il basso Lazio: quello pescato dalla cooperativa di Ponza, quello acquistato ogni giorno nelle aste di Civitavecchia e Anzio. I chilometri sono pochi, il tonno è bandito nei mesi di riproduzione, il pesce povero ha la giusta considerazione (è anche oggetto di un menu ad hoc) la materia prima all’occorrenza può essere anche acquistata e portata a casa
Noi preferiamo consumarla qui, dove si tocca il meno possibile, secondo grammatica della cucina di mare. Dal banco arrivano ostriche, ricci, tartare, carpacci e crudi misti. Gli antipasti lavorati prevedono un profumatissimo omaggio alla Provenza (polpo verace con erbe) e uno sfizioso barattolo colmo di insalata di pesci, crostacei al vapore e maionese di sedano. E poi: gli Spaghetti ai ricci di mare o quelli di farro con acciughe di Ponza, briciole di pane e peperoni alla cenere. Il pescato del giorno è santificato in crosta di sale, ma opzione degnissima è il fritto misto. Carta dei vini ben messa, ma attendetevi di sentirvi consigliare delle bollicine, per cui Pierri ha un debole”.
Che ne pensi? Solo casette e stelle e forchette?
Mi dispiace, ma pur dicendo che conosci il mondo delle guide dal suo interno, dimostri di non leggere alcune di esse da molto tempo. Le pubblicazioni non sono tutte uguali, ragionando a mucchi fai un’operazione che ha molto successo sui social, ma che di fatto non aggiunge nulla di utile al rinnovamento di questo mondo.
Cara Pina mi fai esattamente due esempi che per l’appunto confermano ciò che sostengo!! Che racconti sono??? Dov’è il racconto di ciò che hai mangiato? Cos’è e soprattutto perchè ti è piaciuto ciò che ti è piaciuto? Tu mi fai un’introduzione al ristorante assolutamente generica, che posso trovare su qualsiasi articolo che racconti Don Alfonso, che sia tu o chiunque altro a scrivere il pezzo il risultato non cambia, poi passi ad un elenco di piatti, cioè ad un menu,sui piatti mi dici solo quali sono, non un racconto su cosa di questi piatti ti ha emozionato, e perchè, il tutto condito da un sacco di aggettivi, assolutamente generici: meravigliosa colazione, bellissime stanze. Che vuol dire meravigliosa colazione?? Voglio sapere cosa hai mangiato e perchè è meravigliosa questa colazione altrimenti resta un’esperienza solo tua che non comunichi a chi legge. La seconda recensione è nei fatti identica alla prima, un elenco di piatti e aggettivi assolutamente generici anch’essi, sfizioso (che vuol dire? Perchè è sfizioso?), degnissima operazione il fritto misto, di nuovo perchè? Perchè è degna? Perchè il fritto è particolarmente croccante? Profumato? Tutto questo perdonami è sciatto e di certo, almeno a me, e naturalmente i pareri sono miei, non invoglia in alcun modo ad andare a mangiare in nessuno dei due ristoranti. Lo sforzo fatto è davvero minimo, non c’è nulla di creativo, di davvero coraggioso. Se ricordi nelle lezioni di Food writing vi ho spiegato esattamente il contrario di ciò che leggo, vi ho detto di essere personali, di andare in profondità, di fare uno sforzo per distinguervi, di trovare la vostra voce, che è unica. Evidentemente non sono stata una brava insegnante e me ne dispiaccio. Le guide cara Pina le leggo sempre ahimè, e continuo a dedurne che non cambiano affatto e non sono cambiate nella sostanza, cambia il packaging, ogni tanto come ho scritto si fa qualche punturina di botox, ma nessuno che abbia davvero il coraggio di inventarsi un linguaggio nuovo, di fare uno sforzo in più. E sinceramente non credo nemmeno dipenda da voi che forse qualcosa in più osereste anche, dipende piuttosto da chi queste guide le dirige e chi le dirige non ha nessuna volontà di cambiare, di osare, di coltivare talenti nuovi, in altre parole di passare il testimone. Voi dal canto vostro, il che è comprensibile, vi adeguate, di fatto è più comodo e sicuro così. Ma il quadro credimi è davvero triste. Triste per chi vi legge. Il fatto è che voi pensate, e forse a ragione, che a leggervi siano soltanto gli addetti ai lavori e dunque per l’appunto l’importante sono le stelline non la sostanza e di certo non la scrittura. E avete anche ragione, di fatto a leggervi sono soprattutto gli addetti ai lavori, e dubito che andando avanti così il pubblico possa allargarsi. E questo mi dispiace. Buon lavoro comunque e tanti auguri di buone feste.
Nelle guide cartacee (non solo in quelle) ci sono delle regole da rispettare. Una, per esempio, è la lunghezza dei testi. Sennò con un malloppo di circa un paio di migliaio di schede, c’è il rischio di sforare la foliazione, e magari ti ritrovi alla cinquecentonovantaseiesima pagina di bozza (e l’allarme scatta alla 618 o giù di lì) che sei ancora in Abruzzo e sicuro è già il 3 settembre e la tipografia incombe insieme a tutto un resto che non serve che ti stia qui a illustrare perché lo conoscerai benissimo da te (converrai con me che anche la guida di ristoranti più controcorrente che possiamo immaginare, le regioni le deve avere tutte, no?). bene, le schede più lunghe per noi (quelle cui si dedica una pagina intera, tutti i “tre” per intenderci), misurano 2000/2200 battute, dove devi condensare una serie di informazioni che NON puoi omettere (che posto è, come si mangia, com’è la cantina, e annessi funzionali alla descrizione). mi piacerebbe a questo punto leggere un esempio concreto di 2000 battute alternative, ma per capire, e perché si cresce davvero imparando proprio dagli esempi pratici
Valentina bastano anche 200 battute per scrivere qualcosa di diverso, basta raccontare ciò che già raccontate, la stessa lunghezza, gli stessi concetti, ma scegliendo le parole giuste. Il cibo è fonte di emozioni e tu che ne scrivi le devi passare a chi ti legge, recentemente ho letto una ricetta, di Tommaso Melilli, poche righe:
Prendiamo, per ciascuno di noi, 200g di pomodori datterino molto maturi: con un coltellino, facciamo un piccolo taglio in verticale e apriamo ogni piccolo pomodoro a metà, con le dita. Non è necessario togliere i semi, quelli che vorranno rimanere attaccati ci rimarranno, gli altri cadranno. Svolgiamo tutta l’operazione su uno scolapasta, recuperiamo l’acqua di vegetazione e teniamola da parte. Poi disponiamo un tappeto di pomodorini in una o più teglie, un po’ d’olio e una spolverata di sale. Cuociamo in forno per due ore, a 100°, dopodiché frulliamo i due terzi. Riscaldiamo leggermente una padella vuota e mettiamo, nell’ordine, gli spaghetti appena scolati, l’acqua di pomodoro che avevamo tenuto da parte, abbondante olio, la salsa frullata e basilico a pezzetti. Spegniamo il fuoco e mescoliamo energicamente. Serviamo in un piatto piano caldo, con due cucchiai di pomodorini non frullati, altro basilico, altro olio e poco pepe nero. Se necessario, aggiungiamo un mestolo di acqua di cottura, ma non dovrebbe. Prima di servire, o meglio ancora mentre posate il vostro nido di spaghetti sul piatto, fate un succinto discorso su quanto siano complicate le cose semplici. Con ogni probabilità, qualcuno vi chiederà con sconcerto se nella salsa c’è del miele: voi abbassate lo sguardo, come se vi vergognaste di tanta dolcezza, e dite che c’è solo pomodoro.
Eppure senti che dietro c’è un pensiero, qualcuno che riesce a comunicarti con parole non banali la difficoltà incontrata nel far bene un piatto semplice, la dolcezza del piatto, così intensa che quasi ci si vergogna ad ammetterla. Niente vieterebbe di fare lo stesso con una scheda di un ristorante, a me sembra così elementare che non ci dovrebbe essere nemmeno bisogno di spiegarlo, tu che fai la scheda devi raccontarmi un ristorante e ciò che ci si mangia, è comunque gioco forza non poter raccontare tutto ciò che si mangia, dunque invece di limitarti a darmene il menu sarebbe assai più interessante scegliere invece quello che dovrebbe essere il piatto firma o comunque quello che il recensore ha amato e raccontarlo in maniera più approfondita e meno banale, raccontando appunto cosa si è provato nel mangiare quel piatto. Ti sembra normale che il cibo, che è qualcosa che noi viviamo attraverso i sensi per raccontarsi abbia deciso di tagliare i sensi??? A me no. Io non sono interessata a sapere cosa si mangia in un dato ristorante, quello me lo dirà il menu, io sono interessata a scoprire qual’è il piatto che rende interessante, indimenticabile, emozionante andare in quel determinato ristorante. Quando faccio lezioni di Food Writing la cosa che sottolineo maggiormente è proprio quella di non essere generici, di andare in profondità, la scrittura deve portare con sè il lettore, trasportarlo là dove è chi scrive, con le guide, almeno secondo me, non accade mai. Tutto è terribilmente generico. Non si può scrivere: la colazione è meravigliosa, o il piccione al mattone è buonissimo, perchè non significa nulla, non comunica nulla, sei solo tu che scrivi a sapere perchè era meravigliosa la colazione ma a me che leggo non arriva nulla, e dunque basterebbe lo sforzo di cercare l’aggettivo, il sostantivo, il verbo giusto. Certo vuol dire sforzarsi maggiormente ma se questo sforzo non lo si vuol fare allora perchè scrivere?? Tanto vale per l’appunto dedicarsi all’elenco del telefono. E poi aggiungo, certo devi dire che posto è, come si mangia, che vini si bevono, ma si dovrebbe farlo bene, e non è una questione di battute. Ti faccio un altro esempio concreto, di una scrittrice americana che molto amo, si chiama Mary Frances Kennedy Fisher e penso che chiunque si occupi di scrivere di cibo dovrebbe leggerla obbligatoriamente, qui racconta la raccolta dei piselli in una regione della Svizzera: ““ Correvo su e giù dai ripidi terrazzamenti trasportando cesti, e ad ogni nuovo cesto mia madre sospirava e poi canticchiava allegramente, dal basso giungevano le voci di mio padre e dei miei amici che altrettanto allegramente maledicevano le loro schiene doloranti e le loro gambe stanche, intanto i pisellini venivano sgusciati e finivano nei cestini con un piccolo suono che risuonava leggero nell’aria fine e tersa della montagna, sotto di noi, distante qualche chilometro, splendeva il lago Lemano, silenzioso e immobile.” si tratta di scrittura di cibo, perchè il soggetto è la raccolta dei piselli, però è anche molto di più, c’è una scena, un territorio, un ambiente e rapporti umani, tutti descritti in maniera viva e vivace, chi legge è lì con l’autrice, in montagna, guardando la scena insieme a lei. Perchè non si può raccontare un ristorante nello stesso modo??? Chi e quando si è deciso che la scheda di un ristorante debba essere una piatta enunciazione di un menu? E voi che siete giovani e di certo ambiziosi non potreste almeno tentare di aggiungere qualcosa in più alla vostra scrittura? Al Master del Gambero rosso la cosa che mi impressionava di più è che all’inizio tutti scrivevano i pezzi che davo loro da scrivere come si trattasse di degustazioni di vino, un lavoro tecnico e impersonale dove le sensazioni soggettive erano bandite, ma il cibo E’ un’esperienza personale, diversa a seconda di chi la consuma, perchè dunque sempre e solo banalizzarla? Di certo ho parlato troppo, di certo magari non sono riuscita a spiegarmi. Quello che voglio dire è che la scrittura, qualsiasi tipo di scrittura, dovrebbe essere inclusiva, non esclusiva, io invece leggendo le guide mi sento sempre esclusa, mai inclusa, leggo e per me questi ristoranti sono tutti uguali, cambiano solo i menu. Scrivere, credetemi è anche divertimento e se ti diverti a farlo chi legge si divertirà anche lui. Anche se legge solo una guida gastronomica. e forse dovreste chiedervi perchè ad esempio (trend condiviso da tutte le guide) la Michelin ha perso 400.000 mila lettori in una decina di anni, da mezzo milione a 100.000 copie vendute. Vorrà dire qualcosa no? Certo uno puà allegramente fregarsene ma allora per chi le scrivete ‘ste guide? Per voi stessi e per i ristoratori???? Comunque sono discorsi lunghi e complessi da fare su carta, mi piacerebbe molto un giorno potermi confrontare a voce con voi, chissà se sarà mai possibile!
Mi dispiace che tu rimanga sulla tua posizione: gli esempi che portavo erano invece per dirti che si tenta, in tanti, di andare oltre il mero elenco di piatti per raccontare le storie di chi quei piatti li crea. Mi dispiace, credimi, perchè invece io credo che le guide, se fatte bene, servano per orientarsi nel buono e nel sano. È lo scopo del “servizio” quello che ci poniamo e, al di là di stile e ghirigori, si tratta di pubblicazioni da sfogliare all’occorrenza, per andare a mangiare bene fuori di casa. Punteggi e classifiche servono per il divertimento degli addetti ai lavori, ma il resto lo facciamo per il lettore comune, solo per il lettore. Buone feste anche a te.
Ma una guida Pina serve per raccontare dei piatti, per far vivere su carta un ristorante e ciò che nel ristorante si prepara, rendere vivo sulla carta qualcosa che si fruisce con i sensi sono d’accordo non è semplice, ma è uno sforzo che va fatto, il solo sforzo che deve assolutamente essere fatto. Invece sulle guide c’è tutto, tutto, meno che ciò che sarebbe più importante raccontare e cioè l’esperienza di chi va a mangiare in quel ristorante, perchè al lettore interessa e serve quello, farsi un’idea di ciò che si mangia, e l’idea non è certo data da un elenco di piatti. Le storie dei trattori o degli chef poi, se voglio, me le leggo altrove, non su una guida, non è questione di stile e ghirigori, è questione invece di sostanza. Appunto la guida serve per andare a mangiare bene fuori casa, sinceramente io leggendo le guide questo non lo trovo, trovo dei menu e poco altro, e dunque a che mi serve?????