Quando si avvicina il Natale ci penso sempre. Ai miei Natali americani dico, quelli con 20, 25, a volte 30 gradi, se tirava il Sant’Ana. Il Santa Ana soffia da nordest, attraversa il deserto e si rovescia come olio bollente su Los Angeles. Estate e inverno, senza preavviso se non una strana immobilità dell’aria. E’ un vento da terremoto, da incendi, da omicidi. Un vento che mette a nudo i nervi come lo scricchiolio del gesso sulla lavagna. Quando soffia il Santa Ana la gente a Los Angeles resta acquattata nelle case, l’aria condizionata va al massimo, il mare sembra una lastra di metallo, la percentuale di morti violente, già alta in tempi normali, raddoppia. “In notti come queste,” scrisse una volta Raymond Chandler parlando del Santa Ana, “ogni party ad alto tasso alcolico finisce in rissa. Mogli di solito timide e mansuete, sfiorano la lama del coltello di cucina osservando con attenzione il collo dei propri mariti. Qualsiasi cosa può accadere.”
Insomma quando si avvicina il Natale penso, sì, con un pizzico di nostalgia, a quei Natali dal cielo azzurro e dal sole scintillante. Eccolo qui un ricordo di quei Natali.
Il Natale a Los Angeles e’ durissimo. Provate voi a pensare a Babbo Natale e alle sue renne, a camini scoppiettanti, ad abeti scintillanti e a presepi, con 25 gradi all’ombra e un cielo immancabilmente azzurro! No, Los Angeles non ‘ proprio fatta per il Natale, eppure piu’ il clima evoca spiagge assolate e paradisi caraibici, piu’ il Losangelino si sforza a ricreare un Natale da cartolina. Nei negozi, per strada, alla televisione e alla radio, nei quindici giorni precedenti alla festa, risuona ossessivo un unico motivo: Jingle Bells. Fino alla nausea. Ogni villetta unifamiliare viene incorniciata di luci multicolori che si arrampicano come serpenti su palme e gelsomini in fiore. Anche gli umani si adeguano. Nelle banche e nei supermercati le cassiere indossano (anche quelle con 50 chili di troppo) dei gonnellini rossi bordati di finta pelliccia e simpatici berrettini da Babbo Natale con tanto di pon pon. Nella mia personale classifica natalizia il punteggio massimo lo ha ottenuto una signora obesa che con aria stanca attraversava la strada inalberando sulla testa un cappellino di panno verde su cui svettavano orgogliose due lunghe corna da renna. Aveva un’aria tristissima.
Ma le creazioni piu’ straordinarie erano quelle che si potevano ammirare nei giardini delle case dei “ricchi”, quelli che vivevano dall’altra parte della collina. Ce n’era per tutti i gusti: un gran dispiego di pupazzi di finta neve con la quale si imbiancavano i verdissimi prati californiani, slitte e renne (sempre finte) in quantita’ industriali, fortissimo andavano anche gli igloo e qualsiasi oggetto, dall’iceberg in giu’ che ricordasse il Polo Nord o comunque regioni fredde del nostro emisfero. Pur di vivere un “vero” Natale insomma, il californiano era pronto a tutto. E fin dove potesse spingersi questo “tutto” lo capii durante le prime feste natalizie trascorse a Los Angeles. Mi avevano raccontato che nella Valle c’era una strada, anzi un gruppo di strade, tutte connesse tra loro in cui il Natale assumeva proporzioni bibliche. A cominciare dai nomi. Si trattava infatti di Candy Cane Lane ( Via del Bastoncino di Zucchero), Santa Klaus Lane (Via di Babbo Natale), Raindeer Lane (Via della Renna). La selezione per acquistare o affittare casa in questi indirizzi era durissima. Per entrare dovevi ufficialmente dichiarare che ti saresti impegnato, ad ogni Natale, a addobbare la casa e il giardinetto adeguandoti agli standard decorative altissimi dei vicini di casa. E non si trattava di un’impresa semplice perche’ la fantasia degli inquilini era sfrenata: batterie di gigantesche slitte che venivano posizionate in bilico sui tetti, legioni di Babbo Natale formato magnum colti nell’atto di svuotare le loro gerle cariche di doni giu’ per il camino, branchi di renne multicolori e soprattutto eserciti di gnomi ed elfi, i fedeli aiutanti di Santa Klaus.
Ero ammirata da tanta scatenata creativita’, ma nulla mi aveva preparato alla sorpresa che mi aveva riservato Candy Cane Lane per il mio primo Natale americano. Uno degli abitanti della stradina aveva acquistato una decina di gnomi meccanici, tutti rigorosamente provvisti di abitino verde di panno e scarpine nappate con la punta all’insu’. Come in un una di quelle attrazioni da Luna Park, gli gnometti attraversavano in fila composta il giardino cantando e quando arrivavano all’altezza della staccionata con uno scatto meccanico si giravano e ricominciavano, e cosi’ all’infinito, avanti e indietro. Mi stavo chiedendo ammirata in quale parco giochi fosse possibile trovare simili fantastici nanetti, forse una vecchia attrazione ormai in pensione di Disneyland, quando, uno degli elfi ruppe le righe, si ando’ a sedere in un angolo del giardino e….si accese una sigaretta! Non credevo ai miei occhi, uno gnomo di Disneyland che fumava! Il fatto e’ che non si trattava affatto di folletti meccanici bensi’ di nani in carne ed ossa, o per essere piu’ “politically correct”, di esseri “verticalmente svantaggiati” affittati per le feste natalizie da uno di quei mattacchioni di Candy Cane Lane!
Se la citta’, nel mio primo natale oltreoceano, mi esaltava, a casa invece la musica era completamemte diversa. Natale in Italia per noi era una cosa seria. Sia Andrea che io veniamo da famiglie molto numerose, di conseguenza le nostre feste natalizie sono sempre state una rumorosissima e colorata riunione di nonni, zii, amici, e cugini in gran quantita’. Quindi tanti bambini e tanti regali. Eguagliare una simile performance a Los Angeles era praticamente impossibile. I miei figli lo sapevano e da quindici giorni la frase che sentivo uscire piu’ spesso dalle loro bocche era :”Sara’ un Natale schifoso!”. Atteggiamento peraltro totalmente condiviso da mio marito. Le cose si mettevano male. Nel tentativo di ricreare l’atmosfera festosa dei nostri Natali romani, dissi ai miei figli che avrei invitato tanta gente, tutti i nostri amici americani. Loro mi risposero che degli amici americani non sapevano che farsene, quello che volevano era la famiglia. Mi buttai allora sul cibo, decisi che avrei preparato qualcosa di molto buono, qualcosa che non gli avrebbe fatto rimpiangere i Natali passati.. Optai cosi’ per la pasta fatta in casa, da sempre per me simbolo di gioia e armonia.
Da bambina avevo un sogno ricorrente ( e non il solo), legato al cibo. Con una frequenza impressionante sognavo di essere invitata a passare la serata in un villino molto simile a quelli liberty che abbellivano le strade del mio quartiere. Quello dove mi recavo era a due piani, al secondo viveva un gruppo di barboncini neri con i quali non strinsi mai amicizia, al piano terra invece, circondati da un giardinetto fiorito, viveva una numerosissima famigliola di barboncini bianchi. La casa doveva sicuramente essere molto grande ma io venivo ricevuta sempre nella stessa stanza, un ampio salone con tendine rosse e bianche alla finestra. Nella camera non c’era mobilio solo grandi tavoli sui quali i barboncini, ognuno dei quali portava un grembiulino in vita, preparavano instancabili, fettuccine, tagliatelle, tortellini, agnolotti, lasagne e cappelletti. Non avevo mai visto cani ( e neanche umani) piu’ felici di quei barboncini e ad ogni visita c’era sempre un piatto in serbo per me. Il sogno era talmente vivido da convincermi di essere reale, ero insomma assolutamente convinta che barboncini pastaioli esistessero veramente e che le mie visite settimanali fossero pienamente autentiche. La mattina dopo infatti mi svegliavo sempre sempre felice e soprattutto completamente sazia. I sogni durarono finche’ non cambiammo casa, nel nuovo appartamento si interruppero bruscamente e non riapparvero mai piu’. Di quel mondo di farina e barboncini mi e’ pero’ restata una passione insana per la pasta all’uovo e per i grembiuli da cucina.
Fu cosi’ per me assolutamente naturale in quel primo Natale californiano, decidere di preparare per la cena della vigilia ravioli per tutti, anche se questo avrebbe comportato un vero tour de force ( gli invitati erano 25). Mi barricai in cucina, radio sintonizzata sulla stazione che trasmette solo canzoni natalizie (in America ce ne sono moltissime), mattarello pronto all’uso. In breve la cucina divento’ un campo di battaglia, c’erano vassoi di ravioli su ogni superficie disponibile, piu’ lavoravo la pasta piu’ mi distaccavo dal mondo intorno a me. Impastare per me e’ sempre stata un’esperienza un po’ zen, dopo 5 ore non riconoscevo piu’ neanche i miei cari che peraltro cominciavano a dare segni di evidente nervosismo di fronte al mio progressivo distacco dalla realta’, all’ottava ora ero pronta per il Nirvana del raviolo; ne avevo fatti 350 e si era fatta notte. Stramortita ma ancora sotto il potente effetto raviolo mi buttai sul letto e crollai in un sonno profondo. E allora, dopo piu’ di trentanni, li’ in terra straniera, per la prima volta mi riapparvero i barboncini bianchi, i loro grembiulini, la loro villetta con le tendine a scacchi e soprattutto le loro fettuccine. Il giorno dopo mi svegliai felice e completamente sazia. La sera arrivarono gli amici, i trecentocinquanta ravioli furono spazzolati nel silenzio totale. Alla fine ebbi quasi una “standing ovation” e i miei figli, anche se un po’ a malincuore mi dissero “ Mamma questi sono i migliori che tu abbia mai fatto!”. E buoni cosi’ non mi sono mai piu’ riusciti.
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