Laura Rodotà, dal suo blog sulle pagine del Corriere della Sera online ci racconta come per capire davvero i vantaggi del mangiare all’italiana basta farsi un giro in qualsiasi supermercato americano, Se ne esce vaccinati per sempre contro il fast food.
«Il mangiare italiano è governato dalla tradizione; e, pur essendo una delle maggiori attrattive per gli stranieri, gli americani sono spesso sorpresi dalle sue rigide regole. Per non parlare della diffusa assenza…di cibo geneticamente modificato; qui frutta e verdura hanno forme e colori scarsamente familiari per gli occhi degli americani».
Così si legge su The Local, blog assai ben fatto per anglosassoni in e sull’Italia; nella classifica «Le dieci cose italiane che gli americani trovano bizzarre». Basta stare un po’ negli Stati Uniti –quelli in mezzo, magari, lontani dalle città fighette delle due coste- per capire, come diceva Furio a Magda in Bianco, Rosso e Verdone, che la cosa è reciproca. Che l’italiano medio-foodista in giro, per dire, per il Kansas –ma anche nella più europeizzata Pennsylvania, anche nella multietnica e multituristica Florida- incontra forme colori e sapori che non hanno nulla a che vedere con la sua alimentazione abituale. O con l’alimentazione sana in generale. Buona parte dell’America è ormai l’impero del “plastic food”, e non sono solo affari loro. Perché, va bene, noi non abbiamo un allarme-obesità che riguarda il 30 per cento della popolazione. Perché, ancora meglio, la maggior parte di noi ha accesso a prodotti di filiera corta, insomma c’è sempre almeno una bancarella decente vicino casa. Ma perché anche noi abbiamo poco tempo per cucinare (meglio: lo hanno le donne, in genere; qualche corso-base e un po’ di divisione dei ruoli farebbe bene alla salute di tutti). E mangiamo sempre più i precucinati, i precotti, i takeaway dalla composizione misteriosa. E’ comodo, ci sentiamo contemporanei. Meglio esserlo con cautela. Meglio esercitare un po’ di resistenza umana ortoressica, che ancora ce lo possiamo permettere.
Così si legge su The Local, blog assai ben fatto per anglosassoni in e sull’Italia; nella classifica «Le dieci cose italiane che gli americani trovano bizzarre». Basta stare un po’ negli Stati Uniti –quelli in mezzo, magari, lontani dalle città fighette delle due coste- per capire, come diceva Furio a Magda in Bianco, Rosso e Verdone, che la cosa è reciproca. Che l’italiano medio-foodista in giro, per dire, per il Kansas –ma anche nella più europeizzata Pennsylvania, anche nella multietnica e multituristica Florida- incontra forme colori e sapori che non hanno nulla a che vedere con la sua alimentazione abituale. O con l’alimentazione sana in generale. Buona parte dell’America è ormai l’impero del “plastic food”, e non sono solo affari loro. Perché, va bene, noi non abbiamo un allarme-obesità che riguarda il 30 per cento della popolazione. Perché, ancora meglio, la maggior parte di noi ha accesso a prodotti di filiera corta, insomma c’è sempre almeno una bancarella decente vicino casa. Ma perché anche noi abbiamo poco tempo per cucinare (meglio: lo hanno le donne, in genere; qualche corso-base e un po’ di divisione dei ruoli farebbe bene alla salute di tutti). E mangiamo sempre più i precucinati, i precotti, i takeaway dalla composizione misteriosa. E’ comodo, ci sentiamo contemporanei. Meglio esserlo con cautela. Meglio esercitare un po’ di resistenza umana ortoressica, che ancora ce lo possiamo permettere.
Gli italiani medi, dopo essere stati in un supermercato Usa, diventano tutti ortoressici
Dicesi ortoressico/a (in genere è femmina) chi fa di tutto e oltre per mangiare sano. Ed è piaga dei farmer’s market, bestia nera degli amici che ordinano pizze di origine incerta, evangelizzatore logorroico sempre impegnato/a in prediche su origine e coltivazione degli alimenti, allevamenti etici ed evacuazione facilitata dalle ricette bio (l’ortoressico/a ha pelle luminosa e buona cultura, ma senza rendersene conto finisce a parlare come Avaro Vitali). Diventano ortoressici quasi tutti gli italiani medi quando si trovano in un supermercato dell’America neanche tanto profonda o in un ristorante di quelle catene che sembrano normali ma sono fast food un po’ più confortevoli. E improvvisamente capiscono. Perché perdono tanto tempo al banco frutta di Maria o Peppe o Pina anche se al super la verdura costa meno; perché sono così felici nelle trattorie fuori porta (la loro porta); perché, nonostante tutto, non hanno mai lasciato il loro/nostro Paese.
Perché davvero il plastic food fa male, fa male anche al gusto perché quei sapori post-laboratorio post-cucina unta non danno più neanche il piacere colpevole delle normali patatine fritte (sul serio; ci si è provato e riprovato). Perché, dopo qualche giorno di dilemmi (plastic food o fame) si torna a casa con lo stesso pensiero formulato dalla mia amica Sandra uscendo dal film Nebraska: «Se l’America va così, è meglio salvare l’Europa» (a proposito di chi voleva risistemare l’America a modo suo: sull’aereo del candidato presidenziale repubblicano Mitt Romney, campione delle grandi imprese incluse quelle del cibo industriale, si servivano solo pasti “organic”, cioè bio; l’1 per cento non mangia plastic food, in genere, e ci sarà un motivo ).
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