DA “UNA CASALINGA AD HOLLYWOOD”-DI STEFANIA APHEL BARZINI-GUIDO TOMMASI EDITORE
I proprietari di Langdon Avenue 6625, la casa che avevamo affittato a Los Angeles, vivevano al 6621 in una grande villa nel verde. I primi, veri americani con cui avremmo avuto a che fare.
Leslie e Chris erano la personificazione stessa di un certo tipo d’America, quella un pò puritana, rigida e severa della East Coast. Una giovane coppia con una famiglia da serie televisiva: lui, era immediatamente evidente, aveva solo un compito riproduttivo, lei invece era il vero uomo di casa: magra, segaligna, rigida nel muoversi e nel parlare, un figlio, Sean, stessa età di Matteo, nato da un precedente matrimonio con un altro uomo, già padre a sua volta. Con Chris, Leslie aveva messo al mondo due bambine ancora molto piccole, Katie e Carrie. Insomma una vera famiglia americana.
Se con noi Chris era di un’inutile gentilezza, Leslie, l’aliena, era un muro impenetrabile. Durante tutte le complicatissime trattative d’affitto, non un sorriso l’aveva sfiorata , non un sentimento aveva animato il suo sguardo. Era chiaro che nella sua mente computerizzata,noi, gli italiani, non occupassimo certo un posto di riguardo e nei rari attimi in cui abbassava la guardia potevi leggerle negli occhi il sospetto o piuttosto la certezza di trovarsi di fronti a due poveri imbroglioni, come peraltro tutti quelli della nostra razza. Non a caso Leslie faceva uno dei mestieri più brutti del mondo: recuperava crediti per una grande banca. Un vero mastino.
Alla fine, per motivi a me ancora oscuri, Leslie decise di fidarsi. La casa era nostra anche se per contratto eravamo autorizzati a tenere solo un “outdoor cat” (un gatto che non poteva avvicinarsi alla casa) e potevamo fumare (bontà sua) unicamente in giardino.
A dimostrazione del fatto che eravamo diventati residenti a tutti gli effetti, ci fu consegnata una formale lettera di benvenuto in cui veniva spiegato nei minimi dettagli come comportarsi a casa e fuori, come tenere il giardino, come regolarsi con i rifiuti (particolare che in seguito si rivelò di importanza vitale), come partecipare alle simpatiche iniziative del comitato di quartiere, ( dove per quartiere si intendevano le tre strade adiacenti alla nostra) il quale ogni anno organizzava festicciole per Natale, Halloween, Pasqua e un barbecue estivo. La lettera chiudeva con un’attenta analisi dei supermercati disponibili in zona e con un deciso invito a sceglierne uno in particolare. Non sapevo se ridere, irritarmi o invitarla ad occuparsi dei casi suoi. Dimenticai invece il tutto e cominciai a dedicarmi alla mia nuova casa.
Ardevo dal desiderio di iniziare a cucinare sul serio, mancavano però alcuni essenziali requisiti. Non c’erano mobili, niente tavoli, sedie, letti, biancheria. Tutti i miei strumenti di lavoro, pentole, padelle, piatti, bicchieri, erano in viaggio sull’oceano e sarebbero arrivati il mese successivo. Per fortuna avevamo già scoperto che l’America è un paese in vendita. Gli Americani buttavano e compravano in continuazione, era forse l’unico vero lato dionisiaco del Paese, un furore incontrollato che li obbligava a svuotare casa per poterla riempire di nuovo alla prima occasione di saldi (cioè praticamente sempre). La cultura americana è come intrappolata in un eterno presente in cui cose e oggetti sono sempre implacabilmente nuovi e ogni volta che la mano del tempo ne appanna la novità, quegli stessi articoli vengono rimpiazzati da altri più recenti e scintillanti. Tutta questa accozzaglia di oggetti rifiutati invece di finire in una qualche discarica pubblica, veniva rovesciata, ogni Sabato e Domenica nel giardino o sul marciapiede davanti a casa, qualche cartello che invitava a comprare veniva affisso sulle strade adiacenti e la fiera poteva cominciare.
Il primo anno di pemanenza a Los Angeles, di queste “yard sales”non me ne sono persa una, trascinata dall’entusiasmo di mio marito che poteva finalmente liberamente sfogare la sua anima levantina. Dopo il primo anno però ho abbandonato il campo, satura di stracci, di piatti scompagnati e di spelacchiati animaletti di pelouche.
Dietro alle yard sales si nascondevano storie di persone e di oggetti. Un impiegato di banca che insieme a moglie e bambini decideva di cambiare vita e trasferirsi nelle campagne dell’Oregon ad allevare galline, la neodivorziata tornata single che lasciava Los Angeles per St. Louis, Missouri, dove si sarebbe rifatta una vita, la madre di famiglia che si sbarazzava in todo della camera del figlio appena partito per il College. Gente in continuo movimento alla ricerca di una nuova esistenza, per dimenticare il passato, per inventarsi un futuro o semplicemente per placare, almeno per un pò ansie e paure.
Quanto agli oggetti al quinto week end di yard sales avevo ormai stilato una lista di quelli più venduti: un numero impressionante di “mugs”, quelle tazze con il manico nelle quali gli americani bevono il loro tremendo caffè, molti crockpot, pentole elettriche per cuocere zuppe e stufati ( ne ho comprate due ma non hanno mai funzionato) e soprattutto cestini di vimini, per il pane e per la frutta. Non so perchè ma è un articolo a cui mi è sempre stato difficile resistere e infatti ne ho comprati a decine che ho poi anche riportato in Italia.
Un discorso a parte meritano i pelouches: gli Americani li amano di una passione che non conosce cedimenti. E’ la valvola di scarico emotiva di una cultura spaventata dalle emozioni e dal contatto fisico. L’animaletto peloso può infatti essere toccato e abbracciato senza imbarazzo e soprattutto non risponde, evitando così disagi e turbamenti. Una delle cose che mi colpirono maggiormente durante il solenne funerale per le vittime della strage di Oklahoma City fu che ad ognuno dei parenti e degli amici presenti fu regalato un orsetto di pelouche a cui avvinghiarsi senza paura. La vista di uomini e donne che affranti stringevano a sè i loro orsetti fu per me che vengo da una cultura in cui ci si tocca molto, uno degli aspetti più tristi della cerimonia.
Grazie alle yard sales perciò avevamo riempito la casa: tavoli, sedie, armadi, piatti e bicchieri erano al loro posto. Mancava, al nostro diventare perfetti americani, uno strumento indispensabile, il microonde. Non ci fidavamo ad acquistarlo agli yard sales, convinti che non avrebbe mai funzionato e lo trovammo invece usato in un negozio che ne offriva una straordinaria quantità. Il cortese proprietario consegnandoci con orgoglio l’articolo, per la verità un pò ingombrante e già fuori moda, ci invitò a partecipare ai “corsi di microonde” che si tenevano ogni mercoledì nel retro del locale. Rifiutammo e con 15 dollari ci portammo a casa il nostro fornetto che fu poi usato unicamente per scaldare gli avanzi e per cuocere le patate.
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