Qualche giorno fa su questo blog vi ho raccontato dell’orribile sfruttamento lavorativo e sessuale che subiscono le donne emigrate che lavorano nelle serre di verdure del Ragusano. Oggi alla ribalta c’è un’altra storia, che di nuovo riguarda i migranti e il loro lavoro nei campi, a raccogliere angurie e pomodori. Nell’aula bunker della Corte d’Assise di Lecce, sul banco degli imputati siedono, per la prima volta, nove imprenditori salentini, oltre a sette caporali africani, accusati di tratta, riduzione in schiavitù, intermediazione illecita, sfruttamento e associazione a delinquere. Dall’altra parte, dell’aula sono seduti tredici tra tunisini, camerunensi e ghanesi: sono loro che hanno sporto denuncia, tra il 2009 e il 2011, e che hanno dato il via a quello che potrebbe essere un processo pilota sullo sfruttamento della manodopera immigrata in Italia. Il primo processo che nel risalire la catena delle responsabilità arriva fino agli imprenditori italiani.
Il principale imputato è il Sig. Pantaleo Latino, titolare della Fiordifrutta, azienda che da sola detiene circa il 70 per cento della produzione di angurie salentine, pregiatissime, che dai campi di Nardò, arrivano sul mercato del Nord Italia e da lì anche in Inghilterra e Germania. L’inchiesta, condotta dal Ros di Lecce tra il 2009 e il 2011, ha documentato l’esistenza di “un sodalizio criminale transnazionale” costituito da italiani, algerini, tunisini, sudanesi, e operante in Puglia, Sicilia, Calabria e Tunisia. “I cittadini extracomunitari, tunisini e ghanesi soprattutto – si legge nelle carte – venivano introdotti clandestinamente in Italia destinati allo sfruttamento lavorativo nella raccolta di angurie e pomodori”, spiega il colonnello Paolo Vincenzoni, che ha curato l’indagine. Questi lavoratori vengono reclutati in Tunisia, si tratta di persone che ingenuamente credevano di svolgere un’attività regolare, adescati con il metodo del passa parola dai reclutatori africani che poi con i complici italiani organizzavano i viaggi verso la Sicilia e successivamente, a Pachino, Rosarno e a Nardò, luoghi simbolo della raccolta in Italia. Per imprenditori e caporali le accuse sono pesanti: “dalle intercettazioni emerge chiaramente come fossero proprio i datori di lavoro italiani a pretendere e imporre condizioni disumane, avvalendosi poi dei caporali per l’attuazione dei loro piani”. Dodici ore di lavoro sfiancante ogni giorno, pagate circa 20 euro, da cui però venivano detratte dai caporali le spese di un panino e una bottiglietta d’acqua per il pranzo, ben 5 euro, oltrechè le spese di viaggio, altri 5 euro. Alla fine si arrivava, raccontano i braccianti, “a circa 10 euro di paga giornaliera”. Grazie poi ai datori di lavoro i migranti venivano alloggiati in case fatiscenti, senza acqua, luce e servizi igienici, dove i braccianti erano costretti a dormire.
Queste sono le verdure che arrivano sulle nostre tavole, frutta e verdura avvelenate dal lavoro e dalle condizioni di vita disumane di chi le coltiva e le raccoglie. Oggi nelle piazze del nostro Paese c’è chi fa marce contro questi lavoratori, al grido di “Prima gli Italiani”. Che dunque gli Italiani si accomodino, ma allo stesso prezzo e alle stesse condizioni con le quali sono trattati i migranti africani.
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