DONNE: MADONNE, PROSTITUTE O CUOCHE?
E’ arrivato il momento per noi donne, di accettare la dura realtà. Ebbene sì, quella mela l’abbiamo mangiata. Lo abbiamo fatto perché Eva è tutte noi. Perché per lei, come per noi, è difficile dire no al cibo, al boccone prelibato. Perché il cibo è parte, e parte profonda, di ogni donna. Dirò di più. E’ che allora, pare, lì nel Paradiso Terrestre, il fuoco, i fornelli, non esistevano. Altrimenti sospetto che non solo quella mela l’avremmo mangiata, ma avremmo anche cercato di capire come renderla migliore, più saporita. Avremmo pensato a cuocerla con il miele e una scorza di limone, oppure a toglierne il torsolo per riempirla di bacche, erbe, frutti di bosco, e poi metterla a dorare nel forno. Quindi fiere e orgogliose l’avremmo offerta ad Adamo, al marito primigenio, così tonto da non riuscire nemmeno a trovarsela da solo la mela. O forse solo poco curioso di ciò che metteva in bocca. Così è cominciata la nostra storia. Fatta di innumerevoli pasti, cibi, e di fornelli, e pentole e ricette. Quello che non capisco invece è il motivo per cui quella maledetta mela ci abbia così segnate, costringendoci, da quel momento in poi a portare, inciso sulla fronte, come Hester Prynne ne La Lettera Scarlatta, l’indelebile segno della colpa. Ma se Nostro Signore non ci voleva così affamate, così pronte a nutrire il mondo, allora perché fornirci di capienti mammelle in grado di sfamare uomini e donne dal primo istante delle loro esistenze? Sta di fatto che da allora in poi il nostro destino è segnato. La capacità di dar da mangiare agli affamati, unita ad un’insaziabile curiosità per qualsiasi cosa anche lontanamente edibile, ci ha guidate per i secoli a venire. Si tratta di una verità nota a tutti. Come si spiegherebbe altrimenti l’apparente dabbenaggine di Biancaneve, incapace di dire di no alla matrigna che le offre la mela (ancora una mela, sempre lei!)? O la sfrenata golosità della mamma di Raperonzolo, quella dal codinzolo d’acciaio, che si butta avida sulle verdure di una strega cattiva pur sapendo che quelle stesse verdure rovineranno l’esistenza della sua bimba ancora non nata? Biancaneve e la signora Raperonzola non sono donne stupide, come vorrebbe la leggenda, ingenue fanciulle accalappiate da signore più vecchie e scafate. Biancaneve sa benissimo che la dolce vecchina che vuole venderle il suo articolo altra non è che la cattiva matrigna. Lo sa ma non le importa. Perché rinunciare ad una mela così profumata, rossa, croccante? Così come lo sa la mamma della futura Raperonzolo che cede senza pensarci troppo ai richiami della gola. Ma le donne non si limitano a mangiare, ad amare il cibo, le donne cucinano, e lo fanno da sempre. Da sempre maghe e schiave dei fornelli, croce e delizia, rifugio e prigione del sesso femminile. Ma siamo sicure, ancora oggi, dopo averle abbandonate in massa quelle cucine, per poi ritornarci anche se con tempi e modi differenti, siamo proprio sicure che si tratti di prigioni? Di croci da trasportare, eterno calvario delle nostre esistenze? Cenerentola, è vero, era schiava del focolare, costretta a vivere tra la fuliggine sgusciando piselli, ma non è poi anche da quei luoghi oscuri che è arrivata la salvezza? Non è lì tra la cenere che la fata le è apparsa? E non è stata forse una zucca a trasportarla a Corte permettendole di diventare Regina?
Certo non tutte le donne amano o hanno amato la cucina, mangiare, preparare i pasti, ma non si può negare che i gesti del nutrire, dello sfamare, di saziare, di donare cibo siano gesti che ci sono familiari dagli albori dell’umanità, pur subendo enormi cambiamenti e forme diverse nel corso della Storia. E di certo è tutta femminile la consapevolezza che le provviste, le ricette, i fornelli, raccontino storie del mondo, di chi in esso vive e muore e soprattutto di noi stesse. Che per le donne sia così lo sanno anche gli uomini. “La cucina è la parte della casa che può dire più cose di te: se fai da mangiare o no…se per te sola o anche per gli altri…se tendi al minimo indispensabile o alla gastronomia…se stare ai fornelli rappresenta per te una penosa necessità o anche un piacere. Osservando la tua cucina dunque si può ricavare un’immagine di te come donna estroversa e lucida, sensuale e metodica, che mette il senso pratico a servizio della fantasia. Qualcuno si potrebbe innamorare di te solo a vedere la tua cucina”. E’ Italo Calvino a raccontarlo in Se una notte d’inverno un viaggiatore. Siamo dunque mezze donne e mezze padelle? Sembrerebbe di sì a dar retta a Giovanni Verga che ne I Malavoglia scrive di Mena che se non si mariterà resterà sulla pancia, come le casseruole vecchie e infatti, ancora nubile finirà per salire “nella soffitta della casa del nespolo, proprio come le casseruole vecchie”. Certo è che quando regaliamo cibo, e questa è una delle sostanziali differenze tra uomo e donna, insieme ad esso doniamo ben di più. La Madre gaddiana de La Cognizione del Dolore offre al nipotino, per invogliarlo a studiare il francese, fichi, pesche, caramelle, cioccolatini e gli sorride come fosse lei la sua mamma. Dunque gli elargisce amore. E Gonzalo, suo figlio, ne è geloso al punto da rinfacciarle come da bambino abbia sofferto la fame a causa dei suoi continui regali, di cibo e perciò di affetto, a persone che non li meritavano.
Se dunque gli uomini, guardandoci ai fornelli, capiscono che dietro a gesti consueti e ripetitivi si nasconde altro, sono le donne però a raccontare in cosa questo altro consista. Clara Sereni, da sempre attentissima ai significati “altri” del cibo e della cucina scrive in Casalinghitudine quanto sia per lei “ impossibile una vita solo funzionale, senza piccoli gesti di agio, senza un odore di cura, senza una qualche ricchezza. Così le mie radici aeree affondano nei barattolini, nei liquori, nelle piante del terrazzo…nella mia vita a mosaico (come quella di tutti e più delle donne)la casalinghitudine è anche un angolino caldo. Un angolino da modificare ogni momento, se fosse fisso sarebbe morire, le ricette solo una base per costruire ogni volta sapori nuovi, combinazioni diverse”. Quindi la cucina è o può diventare radici, identità, persona. E alle donne può anche accadere che un piatto o una ricetta assumano valenze quasi mitologiche, chi ama o rifiuta la nostra cucina insomma odia o ama anche noi stesse. La Sereni racconta ad esempio i tentativi di conquista di un padre difficile e severo. Le innumerevoli pietanze, polli, bistecche, zucchine ripiene, tutte immancabilmente criticate e sempre paragonate alla “cucina di mammà”. Quando finalmente Clara osa un piatto diverso, un semplice polpettone, nato dalla sua fantasia e non preso a prestito, il padre capitola. E la figlia si rinchiude in camera a piangere tutte le sue lacrime, vittoriosa e stremata dall’ardua battaglia.
L’annosa e inutile polemica che vede contrapposti uomini e donne in cucina, gli uni chef di ristoranti e le altre massaie ai fornelli, gli uni fantasiosi artisti e le altre nutrici i cui segreti vengono tramandati all’interno del focolare domestico di madre in figlia, ha davvero poco senso se non quello, appunto, di creare polemica. Sarà infatti forse vero che, volendo generalizzare, è da mani maschili che nascono piatti raffinati e originali, ma è altrettanto vero che è da mani femminili che nascono invece nutrimento e cura quotidiana e nei momenti di angoscia, di dolore, di solitudine, di crisi, è il cibo della madre, della nonna, della casa, a mancare, non quello dei ristoranti. Il potere vero, il potere del fuoco, è stato, fin dall’inizio dei tempi, un potere femminile, se non ci fossero state le donne a cuocere, ad arrostire, a condire, con molta probabilità gli uomini avrebbero continuato a lungo a mandar giù cosciotti di carne cruda e a smozzicare radici. Il problema è che mentre la gastronomia, quella colta e raffinata è stata da sempre raccontata per l’appunto da uomini, gli stessi che la interpretavano, la cucina popolare invece, costruita dalle donne giorno dopo giorno, non ha mai avuto cantori nè storici a narrarla. Eppure la sua è una storia che varrebbe la pena scoprire, proprio per via del rapporto così particolare che noi donne abbiamo con i fornelli. Perchè attraverso le nostre storie di cucina si può raccontare, oltre che noi stesse, il nostro Paese, I suoi cambiamenti, le sue ansie, le sue paure, i suoi piccoli e grandi successi. E’ così che è nata l’idea di questo libro. Certo sarebbe complesso e soprattutto troppo lungo un libro che volesse affrontare tutta la nostra storia però a ben pensarci i cambiamenti maggiori, di un Paese di ritmi e tempi lunghi, lenti e faticosi, sono avvenuti soprattutto negli ultimi centocinquant’anni, da quando l’Italia si è, più o meno, fatta. Un secolo e mezzo in cui sullo lo Stivale si sono abbattute, in rapidissima successione, due guerre, una dittatura, un boom economico che ne ha cambiato i connotati, da Paese agricolo a Paese industrializzato, da anni di piombo, da imponenti flussi migratori, da chi è partito e da chi è arrivato, da crisi profonde e non ancora risolte. Anni che ci hanno cambiato molto di più e molto più a fondo di quanto non abbiano fatto secoli di storia precedente. Una sfida dunque, raccontare noi donne, le nostre vite ai fornelli e la storia del nostro paese, perchè sono convinta che a guardarla bene si tratti della stessa storia.
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