UN’ESTATE AL MARE

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UN’ESTATE AL MARE

DA “A TAVOLA CON GLI DEI” DI STEFANIA APHEL BARZINI- GUIDO TOMMASI EDITORE

La prima estate arcudara è stata anche quella della scoperta del suo mare.  Per quanto infatti possa sembrare strano, in tanti anni di frequentazione delle isole, al mare non mi ero mai dedicata molto.  Passavo sì sulla spiaggia ore lunghissime e mi buttavo in acqua quando avevo caldo, ma i miei più che veri bagni erano continui andirivieni tra bagnasciuga e onde.  Ad Alicudi invece non si poteva sfuggire al mare, forse a causa delle dimensioni ridotte del posto che più che un’isola è quasi uno scoglio.  Un iceberg fluttuante.  Il mare lì era dappertutto e il desiderio di appropriarsene incontenibile.  Mio fratello , in quella prima estate, mi portava ogni giorno in barca, alla scoperta di spiagge  e calette.  Tutto era in scala ridottissima, microscopica, piccole baiette, insenature minuscole.  Anche con un motore a sei cavalli, in un’ora il giro dell’isola era bello che fatto.    Alicudi mi affascinava anche perchè mi ricordava incredibilmente Stromboli.  Lo stesso cono perfetto che sbucava dall’acqua ma più piccolo.  A sinistra nere spiaggette minute, simili alle sorelle maggiori di Piscità, a destra la stessa spiaggia dei nudisti  ma in versione lillipuziana.  C’era persino un emulo di Strombolicchio, lo Scoglio Galera.  Poi, dietro, la vecchia Sciara di Fuoco, ancora più drammatica, se possibile, di quella strombolana, con le sue guglie rocciose scavate dai venti.  In alto, sui dirupi, falchi e gabbiani volteggiavano senza sosta lanciando grida stridule.  Sull’altro versante dell’isola, irraggiungibile se non via mare o attraverso uno scomodo sentiero, c’era anche un paesino minuscolo, la Ginostra arcudara, benchè in realtà si trattasse di una contrada, Bazzina, e a differenza dell’altra non si inerpicava su per la montagna, ma si stendeva in lunghezza sull’unico spazio orizzontale dell’isola.  Il mare intorno cambiava colore, dal nero al blu al verde intenso.  Passavo ore intere in quell’acqua tiepida: con la maschera premuta sul viso non mi stancavo, come i pesci attorno a me, di scivolare tra scogli e piccoli lembi rocciosi.  Bagni lunghissimi in cui il mondo si trasformava in una silenziosa bolla liquida.  Lì sotto, aggrappati alle rocce affioranti, nascosti tra le alghe, rintanati in anfratti bui, c’erano patelle, ricci e polipi.  e io ne ero golosissima.  Le patelle erano una facile preda, armata di un sasso ne staccavo a dozzine, alcune grandi come ostriche. Mi piaceva mangiarle direttamente in acqua, una spruzzatina di limone che portavo da casa.   A conquistarmi quell’anno sono state le ore passate in barca che mi hanno reso l’isola amica, è stata la spiaggia dei gabbiani, dove gli uccelli restavano per ore immobili sulla stessa roccia quasi in vedetta, sono stati gli scogli piatti che emergevano dal mare come tante piccole isole su cui mi sdraiavo per ore, incagliata al sole come una balena, finchè mi sembrava di essere diventata una cosa sola con il mare, il sole e le rocce.  E’ stata la caletta di Chiappe Lisce, grosse pietre levigate dal mare come il sedere di un neonato, dove si confondevano le acque marine con quelle calde e solforose che filtravano da sorgenti nascoste sul fondo.  Lì si sostava alla fine della giornata, immersi come ippopotami nelle acque bollenti, in attesa che il sole tramontasse.  Spiagge e cale ancora miracolosamente semideserte, nessuno che venisse a disturbarne la quiete se non grossi granchi sbilenchi e qualche pesce volante.  Ad Alicudi avevo riconosciuto e imparato ad amare l’essenza stessa del mare, quei giorni perfetti in cui il mondo improvvisamente diventa liquido, quelli in cui le altre isole e la terraferma spariscono dall’orizzonte lasciandoci convinti di essere alla deriva in mezzo ai flutti; sono i giorni che seguono le grandi mareggiate, quelli di “mare bianco”, quando l’acqua immobile risplende di una luce quasi lunare.  In passato durante quei giorni le tartarughe venivano a galla per addormentarsi al sole cullate dall’impercettibile sciacquio di onde inesistenti.  Allora i pescatori mettevano a mare le barche e le andavano a raccogliere quasi fossero cocomeri marini.  In quei giorni il tempo si dilata all’infinito e viene scandito solo dagli arrivi di nave e aliscafi.  Sono giorni in cui se ci si ferma ad ascoltare si riesce a sentire il respiro dell’isola.

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