VIRGINIA WOOLF E IL CIBO: ODIO O AMORE? PARTE 2

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VIRGINIA WOOLF E IL CIBO: ODIO O AMORE? PARTE 2

DA “LA SCRITTRICE CUCINAVA QUI”- DI STEFANIA APHEL BARZINI, EDIZIONI GRIBAUDO.

 

“I tempi cambiano, Hyde Park Gate viene venduta, Vanessa si sposa nel 1907 e mette su famiglia, Thoby, il fratello preferito di Virginia, si prende una febbre tifoide in Grecia e muore. Di fronte alla sua morte Virginia ha rezioni hitchcockiane.  Ricordate Norman Bates, l’Anthony Perkins di Psycho? Quello che si ostina a tenere in vita il macabro fantoccio della madre ormai defunta da anni? Virginia fa lo stesso con il fratello, e lo fa, curiosamente, attraverso il cibo. Thoby muore il 20 novembre del 1906 ma lei per un mese scrive lettere ad un’amica lontana fingendo che sia ancora vivo e in continuo miglioramento, la prova é che mangia, menù inventati da lei di sana pianta, prima siero di latte e brodo di pollo, poi pollo pestato e passato al setaccio, poi gelatina di fronte alla quale Thoby (ormai morto e sepolto) ha già l’acquolina in bocca, poi cioccolato e finalmente si passa ad un’alimentazione solida.  L’amica scoprirà poi da conoscenti comuni che il giovane Stephen é in realtà defunto da tempo.  Cosa passa nella testa di Virginia? Probabilmente la scrittrice, già provata dalla scomparsa della mamma, della sorellastra e del padre, non è in grado di affrontare anche questo ultimo colpo, ma lei sa che il cibo é vita e prolunga così l’esistenza del fratello, facendolo mangiare, perché se si mangia vuol dire che non si é morti.

 

Gli anni che seguono sono anni fondamentali nella vita della scrittrice, con il fratello Adrian, con il quale però non va granchè d’accordo, si spostano a vivere al 29 di Fitzroy Square e le cose cambiano.  Fino a quel momento i fratelli, restati orfani, hanno vissuto tutti insieme una vita a metà tra il collegio e la colonia estiva.  E’ sempre la buona Sophie ad occuparsi di tutto, anche perché la signorina Virginia mangia bene solo se è servita e non ama tagliarsi il cibo né servirsi da sola.  Sono anni anche allegri, una sorta di prolungata adolescenza, anni di torte di prugne, tartine al cetriolo e gelati, tanti gelati di cui Virginia va ghiotta, “ niente di meglio di un buon gelato, di mattina, a mezzogiorno, in Ottobre!”, scrive ad una sua amica.  Anni in cui a Natale lei e Vanessa fanno merenda con il tacchino mentre i fratelli preparano punch al rhum, metà brandy e metà rhum a cui aggiungono zucchero, limone e acqua calda, con il risultato che la casa puzza come un pub.  E a Capodanno si festeggia invece con i dolci, Virginia con una bottiglia di zucchero d’orzo, Thoby con il succo di lampone, Nessa e Adrian con lattine di American Butter Toffee, tutti insieme seduti intorno al fuoco a succhiare caramelle lunghissime che si sciolgono lentamente, nell’attesa che arrivi l’anno nuovo.  A Fitzroy Square la musica cambia, Virginia é adesso la capo famiglia, sta a lei, malgrado la vecchia Sophie sia sempre presente, ad organizzare le giornate, sta a lei per esempio preparare il breakfast ed é così che comincia ad interessarsi di ciò che mangia, a notare per esempio che il latte va a male molto velocemente diventando una sorta di crema acida e granulosa, mentre il burro e il bacon possono mantenersi anche per una settimana.  Gli anni più violenti della malattia sono ancora lontani e senza i morsi cattivi della psicosi Virginia scopre di amare il cibo e le faccende domestiche, lo scrive all’amica-amante Violet Dickinson: “Sto diventando esperta nelle cose di casa: Quanto costano le cotolette di pollo? Dov’é finita l’altra coscia di pollo di ieri? O perbacco, perché certi discorsi si fanno solo in cucina e nello studio si parla solo di stile?”.   Addirittura rivendica con orgoglio, proprio lei così impegnata nelle rivendicazioni femministe dell’epoca, l’importanza delle faccende domestiche, la cosa che sa fare meglio, afferma che vuole mandare avanti la casa con criteri eccellenti e che l’economia domestica dovrebbe essere considerata alla stessa stregua della letteratura perché non vede come si possano separare le due attività visto che se si cerca di mettere i libri da una parte e la vita dall’altra, diventano entrambi miseri ed esangui.  Secondo lei le due cose sono indinstinguibili.  Ed é tra le lettere e i diari di quegli anni che ho trovato una delle sue affermazioni più singolari, che da sola riesce a capovolgere l’immagine stereotipata di Virginia che é arrivata fino ai giorni nostri, quella di una donna che con il cibo intrattiene cattivi rapporti, che vede il mangiare come una necessità quotidiana e che trova imbarazzante parlare e sentir parlare di cucina.  Scrive la Woolf che ha mangiato fagiani, che li ha trovati particolarmente buoni e che ha dedicato attenzioni speciali ad una solitaria aluccia, considerandola come fosse un pezzo di carne tenera: criticamente.  E si domanda: “Perché la letteratura non tratta mai di roba da mangiare? Eppure ci si pensa sempre! Si potrebbe dar vita a una nuova scuola, con aggettivi ed epiteti nuovi, che daranno emozioni belle e strane, assolutamente inedite”.   Senza saperlo Virginia anticipava di quasi due secoli le tematiche e gli interrogativi che al giorno d’oggi si pongono coloro che scrivono di cibo.  Un bel successo per una scrittrice dai più considerata anoressica! 

 

A Fitzroy Square Virginia decide di prendere degli affittuari, con lei e il fratello Adrian ci sono adesso Maynard Keynes, il famoso economista, Duncan Grant, il pittore bisessuale che diventerà in seguito l’amante di Vanessa e Leonard Woolf, futuro marito di Virginia.  Sono gli albori di Bloomsbury e la casa diventa presto una specie di comune scandita da regole e orari ben precisi.  E’ Leonard a raccontare che il giorno in cui é accettato come inquilino pagante, lo informano anche della nuova routine della casa: la colazione è servita alle 9, il pranzo alle 13, il tè alle 16,30 e la cena alle 20.  Ma sono i modi del mangiare ad essere bizzarri, Virginia infatti specifica che: “alle ore stabilite i vassoi saranno disponibili nell’entrata.  Gli inquilini sono pregati di portarli nelle loro stanze, e di restituirli, con i piatti sporchi, subito dopo il pasto. Per ordinare i pasti della giornata gli inquilini sono pregati di scrivere le loro iniziali sulla lavagnetta d’istruzioni per la cucina, che si trova nell’entrata, entro le 9,30.  Per disdire la cena occorre darne preavviso entro le 6 del pomeriggio, per il pranzo entro mezzogiorno.  I pasti consisteranno di  tè, uova e pancetta, pane fresco o tostato per colazione; carne, verdura e dolce per pranzo; tè e focaccine per merenda; pesce, carne, dolce per cena.  In linea di massima non é possibile avere ospiti, si potranno fare delle eccezioni, previo preavviso.  Eventuali desideri degli inquilini verranno presi in considerazione.  Una apposita cassetta verrà collocata nell’entrata per permettere agli inquilini di trasmettere richieste e reclami.  Per facilitare il lavoro del personale di servizio, si raccomanda la puntualità.  I proprietari si riservano il diritto di sospendere il servizio senza preavviso.  Per Natale e Pasqua e per le vacanze estive sono previsti periodi di riposo durante i quali un apposito addetto s’incaricherà di servire la colazione e di pulire le stanze”. Anticonformisti anche nel mangiare,  i ragazzi di Bloomsbury si creano così una loro mensa privata!

 

Nel 1912 Leonard e Virginia si sposano, inizia una nuova vita, quella adulta.  Una vita che vedrà avvicendarsi due guerre e la fame che le accompagna, una processione infinita di cuoche e cameriere, crisi sempre più violente del suo male, che lasciano la scrittrice spossata, stanca, spaventata, e poi tante, tante case.  E in mezzo a tutto questo, il cibo, cibo che, a seconda dei momenti, si trasforma da amico a nemico, per poi tornare di nuovo amico.  A voler fare un elenco delle cose che Virginia ama mangiare ci si perderebbero mesi.  Leggendo o rileggendo le sue opere, i suoi diari, le sue lettere, infiniti sono i riferimenti alla cucina, ai momenti del cibo.  A Virginia piace il roast beef, accompagnato dall’ananas, come si usava allora nelle case inglesi, e molto inglesi sono tutte le  sue preferenze: la panna, lo yorkshire pudding, lo stoccafisso, le costolette di montone, le salsicce, che le ispirano pensieri strani, come quella volta che a casa di Vanessa sono servite in grandi piatti, calde, dall’aspetto indecente, mentre si contorcono come serpenti neri abbracciati nell’amore, e poi i funghi di cui va ghiotta e che raccoglie instancabile nelle sue case di campagna, le uova, quelle delle sue galline a Monk’s House, che prende ogni giorno “con un fremito, sono così calde, lisce, con una piumetta o due appiccicate sul guscio” e ancora il bacon fritto, le fragole, le marmellate, fatte in casa con la frutta raccolta nei boschi o nel suo frutteto, le crostate, i gelati, una vera passione: “Dio che sollievo un gelato!” scrive nel diario.   Insomma Virginia, se la malattia non la assale, ama i sapori, gusti magari semplici ma che soddisfa con gioia.  Con il passare degli anni poi e l’aumentare degli introiti, gli Woolf cominciano a viaggiare all’estero e i loro palati si affinano, soprattutto quando Vanessa acquista casa in Francia, a Cassis.  Lì mangiano ostriche vive che palpitano in bocca, patè morbido e saporito, bevono Monbazillac.  Lì, scrive Virginia all’amico pittore Roger Fry, su quelle cime, dove c’é il sole, fa caldo, ci sono luce, colori, vero mare, vero cielo e vero cibo, lì anche le chiacchiere diventano appassionanti.

 

Se però dovessi indicare solo tre dei cibi preferiti di Virginia, allora sceglierei cioccolato, mele e pane.  E’ Nelly, la sua cuoca odiata-amata, a raccontare in un’intervista alla BBC radio, molto dopo la morte della scrittrice, della sua passione per la cioccolata densa, in cui intingere i biscotti.  Cioccolata che appare moltissimo negli scritti di Virginia, qualcosa di più di un semplice alimento, una cerimonia, un rituale, la tazza di cioccolata calda bevuta ogni sera prima di andare a dormire, un sortilegio che regala protezione contro gli uragani che squassano il mondo e la sua vita, un argine al disordine della sua esistenza, un’ancora che le permette di non perdersi.  Non a caso dopo i bombardamenti di Londra la prima cosa che fa é proprio bere cioccolata calda, non a caso a guerra appena finita lei e il marito scoprono un negozio di delicatessen vicino a casa; dopo anni di penurie, di fame, sul bancone c’e’ una catasta di tavolette di cioccolato belga, sottili come una foglia, ne comprano tre a testa, tornano a casa e le divorano muti, in silenzio, con riverenza.  Quel cioccolato parla, dice che il mondo è cambiato, anche se di poco.  Che la guerra è finalmente finita.   La ripetizione di piccoli rituali, di gesti sempre uguali dunque dà a Virginia quella sicurezza di cui ha disperato bisogno, non solo cioccolata perciò, ma anche e soprattutto  tè.  La scrittrice, come qualsiasi inglese che si rispetti ama quella cerimonia che si ripete, immutabile, dalla sua nascita. Nella casa dei genitori, ma in tutta la società femminile vittoriana, il vero talento femminile stava nella capacità di presiedere in maniera impeccabile a quel rituale pomeridiano. Virginia ricorda nelle pagine di Momenti d’Essere, come il tavolo del tè fosse il cuore e il perno della vita famigliare, sul quale, la domenica, giornata sacra per il tavolo, erano appoggiati vassoi rosa a forma di conchiglia.  E il tè, i suoi tempi, i suoi ritmi, scandiranno tutta la sua vita. Bevuto ogni pomeriggio, davanti al caminetto, chiacchierando, leggendo libri, discutendo di letteratura e dei fatti del mondo, dopo averlo sorseggiato, grazie ad esso, la vita, le cose, hanno un aspetto più roseo. 

 

L’altra passione, anche questa molto inglese, sono le mele.  Tutte le signore anglosassoni di questo mio libro adorano le mele, da Agatha Christie, a Pamela L. Travers, a Louise Alcott a Jane Austen, non ce n’é una che al pensiero di questi pomi dorati non si commuova, non diventi elegiaca.  Per noi Mediterranei forse é difficile da capire ma il piacere della mela é per loro indissolubilmente legato alla gioia di passeggiare nelle orchard, quei luoghi a metà tra orto e giardino, dove frutta, verdura, alberi e cespugli crescono insieme in un abbraccio erbigno. Virginia ricorda quando da bambina, nel giardino di Saint Ives, un caldo pomeriggio d’estate, si ferma a guardare gli orti e gli alberi carichi di mele rosse e oro, le api ronzano intorpidite e lei immobile , chiude gli occhi e annusa il mondo intorno a sé, in preda ad un’ebbrezza stordita.   Crescendo poi, a Monk’s House, sarà il suo orto-giardino, dove si mescolano fiori, cespugli, cavoli, uva sultanina, prugne, funghi, more, mirtilli e porri, e poi pisellini e asparagi, pere e carciofi, patate e mele, a darle momenti di vera felicità, niente le piace di più infatti che passeggiare sotto gli alberi carichi di frutta.  Mele da mangiare, da cuocere, con cui prepara torte e marmellate.  Mele che regala come fossero un prezioso tesoro: a Natale del 1922 scrive all’amica pittrice Dora Carrington: “ Leonard manderà a te e a Ralph, coi nostri saluti, delle mele da cuocere.  Un regalo un po’ rognoso; ma il vecchio serpente- tu sai chi voglio dire (allude a Lytton Strachey che viveva con loro- NdA)- spesso mangia una mela con la sua tapioca…” E fino alla sua morte le case di Virginia vedranno grandi andirivieni di cesti di mele, marmellate, ricette scambiate con amici e conoscenti.  Ma non di sole mele vive l’uomo, o la donna, e così la scrittrice, appena inizierà a cucinare, negli anni della guerra, vorrà concentrarsi sull’alimento femminile per eccellenza, quello che da sempre ben incarna la natura un po’ stregonesca di noi donne.  Il pane, che come per magia si gonfia, lievita, si colora, si trasforma.  Virginia amava moltissimo panificare, tra lei e la sorella c’é un fitto  scambio di ricette e di pagnotte che viaggiano da una casa all’altra, una sorta di amorosa competizione.  “Ho fatto il pane da vera esperta…quello del fornaio é insipido e secco…ti mando una pagnotta e dei dolci fatti da me…ho fatto i tuoi panini, non così buoni come i tuoi ma migliori di quelli di Nelly”.  Sarà proprio il pane l’alimento che le mancherà di più negli anni di guerra, quando sarà difficile trovare il lievito e deve perciò accontentarsi di pane secco, duro, non lievitato. E’ allora che Virginia scopre la miseria, la fame, la cucina. Inizia a darsi da fare ai fornelli, comincia con zuppe, pudding, patate, arrosti, qualche torta, e si interessa anche alla spesa, si rammarica che non si trovi più il burro e a volte neanche margarina decente, che le uova, così come i polli, siano quasi sparite e costino moltissimo, rimpiange le torte con la glassa, é felice quando può usare le patate e le verdure del suo giardino e quando riesce a trovare un po’ di zucchero.  Lei e Vanessa si mettono in cucina per far quadrare il magro bilancio, preparano pranzi a base di salsicce, pane e sugo di salsicce, oppure di semolino, non mangiano altro per settimane, con l’aggiunta di un poco di lardo.  E’ intristita, Virginia, dai tetri piattini di biscotti secchi che vede nelle vetrine dei fornai, dalle piccole brioche senza prugne, dalla mancanza di panna, di vero latte, che la costringe a usare quello condensato.  Ma é proprio la fame della guerra che le insegna qualcosa.  Nel 1940 infatti scrive sul suo diario: “Adesso come si apprezza il cibo.  Mi invento pranzi immaginari”.

Quegli anni sono anche quelli che vedono il via vai impazzito di cuoche e i grandi cambiamenti nelle cucine delle case di Virginia.  E le due cose, crisi domestiche e ammodernamenti, sono strettamente legate.  Le cucine degli Woolf, così come tutte quelle di quel periodo, allontanano Virginia dai fornelli.  Non c’é via di scampo, per molti anni la scrittrice sarà costretta a convivere con cuoche che faranno il “lavoro sporco”. E si tratta di cuoche davvero eroiche. Hogarth House, Asham House, Monk’s House, tutte hanno cucine buie, lavandini di pietra, fornelletti o stufe a carbone, acqua da pompare a mano dalle cisterne, niente frigoriferi, elettricità o riscaldamento, in compenso tanti topi, fango, scarafaggi e umidità.  E come non bastasse anche un gran numero di amici e ospiti che arrivano senza preavviso ad ogni ora del giorno, mangiano, tanto, e magari si fermano anche a dormire. Tutte le cuoche si lamentano, in fondo quelle stanze sono quelle dove loro chiacchierano, bevono il tè, mangiano e ricevono visite dalla servitù del vicinato.  E nelle cucine di casa Woolf c’é davvero poco da stare allegre.  Virginia, che per tutta la vita ha cercato e voluto “una stanza tutta per sé”, nega però lo stesso diritto a cuoche e cameriere.  Ma che le piaccia o meno da cuoche e cameriere la scrittrice é completamente dipendente, le detesta, ma non può farne a meno.  Mal sopporta Mabel, cuoca arcigna, malinconica, silenziosa, strana, modesta ai fornelli, dalla cucina indifferente, insalate e zuppe per vegetariani, pesce mal pulito e caffè annacquato. Una che non riesce neanche a fare un soufflè decente e che suda quando prepara la marmellata.  Quando Mabel se ne va, Virginia scrive: “ Finisce così una relazione durata cinque anni, non facile, muta, ma passiva e calma: una pera pesante, senza sole, che si stacca da un ramo”.  Non va meglio con Rivett,  Virginia la descrive come  una donna fallita, arida, diffidente, una che prepara cibi squallidi e insapori e inventa nervose combinazioni di tapioca e arancia, lenta, incapace, sciocca, in grado di cucinare solo sogliole annerite e salse bruciate. Leonard che é un buongustaio la detesta.  Naturalmente avrà anche lei vita breve.  L’unica a resistere a lungo, dal 1916 al 1934, é Nelly Boxall.  Ma qui bisogna scomodare la psicoanalisi, il rapporto tra lei e Virginia é infatti da manuale.  Una lunga, complessa relazione un po’ sado-maso, in cui tutte e due le protagoniste ricoprono gli stessi ruoli.  Le due donne maltrattano, sono maltrattate, si ribellano, subiscono, litigano, vere e proprie scene isteriche, licenziano, si licenziano, ritornano, partono, piangono, si offendono, fanno pace, incapaci di stare lontane una dall’altra.  Vittime e carnefici allo stesso tempo. Ad ogni crisi Virginia cerca di sostituirla e poi ci ripensa felice in fondo di ritrovarsi con la buona, vecchia Nelly.  E Nelly fa la stessa cosa, abbandona il campo e poi torna con la coda tra le gambe.  Ma Nelly ha un vantaggio sulle altre, é brava, le sue cotolette, l’anatra al forno con le pere e lo sherry, le sue creme di pomodori, i pasticci di gamberi, le crostate di frutta, la crème brulè, i suoi gelati, sono apprezzati da tutti gli amici dei Woolf.  Virginia  riconosce in lei un talento naturale e la manda addirittura a fare un corso di cucina dallo chef Marcel Boulestin,  frequentato anche da lei nel 1914, con un certo snobismo ma anche con un certo piacere, tanto che racconta ad un’amica:“…Ad un’estremità della stanza ci sono dei marinai, e poi ci sono alcune signore dai capelli grigi molto colte e raffinate con le mani infilate nel ventre dei polli, alcune molto eleganti, che sono venute a perfezionare la loro conoscenza del consommé.  Io mi sono distinta facendo cuocere la fede in un budino di grasso di rognone.  E’ davvero molto divertente.” Alla fine però anche Nelly andrà a ingrossare le file delle sue colleghe”. 

 

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