“Una bella cena é importante per una buona conversazione. Non si può pensare bene, amare bene, dormire bene, se non si é mangiato bene”. Così scrive Virginia Woolf in Una Stanza tutta per sé. Ma forse più illuminante ancora é ciò che annota nei suoi diari l’8 marzo del 1941, solo venti giorni prima di suicidarsi e di concludere così tragicamente la sua esistenza. “Occuparsi é essenziale. Ed ora con un certo piacere mi accorgo che sono le sette e devo preparare la cena. Merluzzo e salsicce. Credo sia vero che scrivendone, ci si rende in qualche modo padroni del merluzzo e delle salsicce”. Virginia perciò lo sapeva, si può tentare di tenersi ancorati al mondo con le parole del cibo, con il cibo stesso. Lei lo aveva sempre fatto, o almeno aveva cercato di farlo, ogni qual volta la malattia che le avrebbe rovinato l’esistenza alzava la testa, per morderla senza pietà, lasciandola poi sempre più sola, fragile, stordita. Questa crisi, l’ultima, le sembrava più violenta e insopportabile delle precedenti, era certa che non sarebbe riuscita a superarla. Sapeva che non ce l’avrebbe fatta a vincere il dolore, l’ansia, le paure che la malattia portava con sé. Ne aveva riconosciuto i sintomi, sentiva le voci che la opprimevano con i loro toni cupi e gli uccellini di Monk’s House, la casa tanto amata, avevano iniziato a cinguettare in greco, sussurrando parole senza senso. Ma soprattutto c’era il cibo, o meglio il disgusto del cibo, la paura del cibo, l’ossessione del cibo. Quello era uno degli inconfondibili segni che il mostro si faceva da presso. Il 25 febbraio 1941 così scrive, mentre prende un tè al Fuller’s Teashop, uno di quei rituali che l’aiutano a restare aggrappata alla realtà: “ Una donna grassa tutta elegante, con un cappellino roso di cacciatore, perle, gonna a quadri mangiava dolci sontuosi. Anche il suo scalcagnato accompagnatore si rimpinzava: dall’altra parte il furgone di Hudson scaricava biscotti. La donna grassa aveva un indecente viso largo e bianco da focaccia. L’altro era leggermente arrostito. Non facevano che mangiare. E parlare di Mary. Ma se é malata, dovrai andare a trovarla. Tu sei l’unica…Ma perché dovrebbe essere malata?…Ho aperto la marmellata ma a John non piace. E abbiamo due libbre di biscotti nel barattolo di sopra…In loro c’era un che di profumato, dozzinale, parassitico. Poi fecero il conto dei dolci. E s’intrattennero con la cameriera: Da dove vengono i soldi per nutrire questi grassi lumaconi bianchi? Brighton, paradiso delle lumache………Gente tutti i giorni. E un rimescolìo nella testa. E dei vuoti. Il cibo diventa un’ossessione. Do’ via a malincuore un dolcetto alle spezie. Stranezze dovute all’età o alla guerra?”. Certo, la guerra e le sue ristrettezze c’entravano, ma il disgusto o l’ossessione del cibo hanno sempre accompagnato le crisi di Virginia. Oggi si potrebbe dire che fosse anoressica, o quantomeno che lo diventasse nei momenti della malattia, ma sarebbe riduttivo. La verità é che da sempre questa donna geniale, nevrotica, insicura, ha avuto con il mangiare, con la cucina, un rapporto complesso e ondivago. Tra tutte le scrittrici che racconto nel mio libro é di sicuro lei quella che ha intrattenuto con il cibo la relazione più tortuosa e affascinante allo stesso tempo. E non é un caso che proprio con lei abbia voluto iniziare la mia storia.
Il fatto é che con Virginia é vero tutto e il contrario di tutto, e non solo gastronomicamente parlando. Leonard, il marito molto amato, anche se in maniera non convenzionale, l’angelo custode, la diga contro la malattia, scrive che la moglie amava i piaceri della vita, mangiare, fare le spese. E in effetti le pagine dei suoi libri, dei suoi diari, delle sue lettere, sono ricche di annotazioni sugli incanti del palato e sulle gioie che il cibo le regala. Ma tutto questo cambia di colore quando la malattia si avvicina, ciò che mette in bocca diventa allora il nemico da sconfiggere. Nelle fasi maniacali i piaceri della carne, sesso incluso, “l’orgasmo-afferma- é enormemente esagerato”, diventano rivoltanti, ostili, rifiutarli vuol dire rifiutare la malattia stessa, controllare il corpo, annichilirlo a colpi di digiuno, essere in grado di controllare la mente e perciò la vita stessa. Significa spingere l’anima oltre i confini, lontana dai bisogni materiali, verso una purezza irraggiungibile e per questo tanto agognata. Il tentativo di riempire un vuoto incolmabile. Non é la sola, altre scrittrici, Karen Blixen per esempio, hanno ostinatamente combattuto contro quella voragine che se le mangiava vive, quel vuoto di cui Emily Dickinson scrive: “…questa fame fredda, senza sosta, senza fine…”.
Quando la crisi si avvicina Virginia dimentica di mandare giù cibo, associando al grasso, alla ciccia, il torpore mentale che la afferra. Quel restare a lungo digiuna, senza appetiti, per un po’ le risveglia i sensi e l’attenzione, ma poi lentamente la sospinge verso uno stato depressivo, è la fase acuta della malattia, quando le tendenze suicide si fanno più forti, quando Virginia resta seduta immobile per ore, squassata da una tristezza disperata, senza rispondere a nulla e a nessuno. La stranezza é che la cura a quella terribile malinconia consiste in ciò che in quei momenti detesta più di ogni altra cosa al mondo: mangiare. I medici che l’hanno in cura le dicono che per guarire deve dormire, fare una vita sana e soprattutto nutrirsi molto e bene, proprio lei, così convinta di star male perché ghiotta e pigra. Insomma Virginia è messa all’ingrasso e lei odia ingrassare, tutto quel peso, a volte anche venti chili in più, la fa sentire orrendamente sfigurata. Mangia, costretta a ingoiare, sentendosi come una scrofa gigantesca a cui viene tenuta la testa nel piatto. Eppure il cibo, ogni volta le salva la vita. E’ Leonard, nei giorni della malattia, il suo carnefice e il suo salvatore. E’ lui che la nutre, che veglia sulla sua salute. Come una madre le si siede accanto per ore, costringendola a mandar giù qualche boccone, un’operazione estenuante, le accarezza con dolcezza un braccio o la mano e lei, come un automa, ogni tanto inghiotte qualcosa. Leonard non si spiega i motivi di quegli atteggiamenti così strani, capisce però che dietro si nasconde qualcosa di profondo e irrazionale, un tabù, una follia pervasa da sensi di colpa, connessa all’atto del mangiare, come se rifiutando il cibo Virginia rifiutasse la dipendenza dagli altri. Ma Leonard é uomo razionale e positivo, che ha difficoltà e forse anche poca voglia di esplorare la mente esaltata della moglie e alla fine di quelle logoranti battaglie l’unica cosa che gli sembra di capire, sebbene con difficoltà, é che con un matto é inutile litigare.
Fatto sta che ogni volta Virginia, volente o nolente, mangia, e ogni volta poi sta meglio e il sollievo é tale che lo stesso cibo, la stessa ciccia, che nella malattia incarnavano ansie, paure, disperazione, diventano ora strumenti di salvezza. Lo annota nei suoi diari: “Non intendo fare più scene disgustose per mangiare. Non m’importa quanto mangio pur di andare avanti così. Le voci che credevo mi facessero impazzire, pensavo fossero dovute all’eccesso di cibo, ma non é così perché continuo ad ingozzarmi, eppure non le sento più. Ora in clinica bevo cioccolata e mangio biscotti e caffè cattivo”. Certo si lamenta di essere ingrassata ma dice anche di sentirsi finalmente molto bene e che in fondo le piace starsene nascosta in quella montagna di carne. Quando il mostro cattivo si allontana lasciandola respirare, é immensamente grata al suo corpo dilatato, e lo scrive all’amico Jacques Raverat: “Sono contenta che tu sia grasso; perché allora sei cordiale, comprensivo, generoso e creativo. Trovo che se non peso 60 chili sento le voci e ho le visioni , e non riesco né a scrivere né a dormire”.
Questo è stato l’oggetto di riflessione della lezione di cucina che abbiamo tenuto lo scorso lunedì: la tavola di Virginia, di questa donna che con il cibo e i fornelli ha avuto un rapporto complesso e ondivago, molto più sfumato e contradditorio di quanto non si creda. E’ stata una bella lezione, una netta maggioranza di donne come è giusto che sia parlando di questa scrittrice. Ed è stata una vera emozione cucinare e mangiare ciò che Virginia amava: boeuf en daube, la salsa di pane e latte ad accompagnarlo, e poi le mele al forno ripiene di burro e zucchero e gli immancabili muffins. E’ una bella avventura entrare per qualche ora nella testa e nel palato di scrittrici famose, accadrà così anche per le altre scrittrici di questo corso: Simone de Beauvoir, Gertrude Stein, Karen Blixen, Grazia Deledda, Elsa Morante, Agatha Christie, Natalia Ginzburg, Colette, Pamela L. Travers (autrice di Mary Poppins), Harriet Beecher Stowe (autrice de La Capanna dello zio Tom). Indagheremo insieme i loro gusti e disgusti a tavola, cucineremo e mangeremo i loro piatti preferiti, perchè, come afferma Virginia ” Non si può amare bene, dormire bene, se non si è mangiato bene”.
La prossima scrittrice che scopriremo ai fornelli? Elsa Morante, Mercoledì 4 Marzo, ore 17,30-21,00. Una scrittrice affascinante che bene ha saputo raccontare il cibo, la sua mancanza, la fame, come nessun altra. D i lei e con lei cucineremo e mangeremo: Insalata di polpo, Zuppa di pesce al limone, Calamaretti alla Malvasia e Gelato al mandarino. Vi aspetto! Per maggiori informazioni e prenotazioni cliccate sulla pagina Corsi di questo sito e poi sull’icona Booking. Oppure scrivetemi a: stefia1952@libero.it
“La Scrittrice Cucinava qui” di Stefania Aphel Barzini- Edizioni Gribaudo.
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