Si è aperto ieri a Torino il Salone del Gusto. Fino ad oggi è un appuntamento al quale non sono mai mancata, quest’anno invece non vado. Non per mancanza di voglia ma per mancanza di tempo. Amo molto questa manifestazione, l’ho amata fin dall’inizio, dagli anni gloriosi in cui, lavorando come autrice a RaiSat-Gambero Rosso Channel, tutto il canale si spostava in trasferta a Torino per commentare in diretta il Salone. Abbiamo lavorato benissimo in quegli anni, eravamo un gruppo coeso e determinato, grazie anche a Stefano Bonilli, indimenticato e indimenticabile inventore del Canale. Lavoravamo tra mortadelle e prosciutti con grande energia e con l’allegria di un gruppo in gita scolastica. Giorni trascorsi nel caos e nella baraonda del Salone tra caciotte e formaggi, salse e tagliatelle, piadine e olive ascolane. Dopo cinque giorni sempre in mezzo al cibo si tornava a casa vagamente nauseati ma carichi di ogni ben di Dio. I miei amici credo non dimenticheranno facilmente le cene post Salone a casa mia, erano un appuntamento fisso. Un anno sono tornata in aereo con una saccocciata di tartufi (quell’anno costavano insolitamente poco e in parte me li avevano regalati), ricordo ancora che i passeggeri seguivano la scia dei preziosi tuberi comne fossero cani addestrati. Un’altra volta sono tornata in treno con un cappone di Morozzo sotto un braccio ed un violino di capra sotto l’altro. Mi era difficile infatti resistere alla straordinaria offerta di prodotti di eccellenza da tutto il mondo. Con il passare degli anni la parte mercato ha cominciato a perdere per me il suo potere di attrazione, i prodotti sono sempre tantissimi e sempre splendidi, ma dopo un po’ la troppa offerta comincia a stancare. Invece imperdibile ogni volta è Terra Madre, la manifestazione collaterale che vede riunirsi le tante comunità del cibo sparse nel mondo. Quello, da sempre, è un momento commovente. Ricordo l’emozione della prima volta che ho visto tutti insieme contadini e allevatori arrivare da ogni parte del pianeta nei loro sgargianti costumi tradizionali. Quell’anno, per il Canale, dovevo seguire la comunità di donne Kenyote, che producevano carne di cammello. Non erano mai uscite dal loro paesello di capanne di fango e non dimenticherò mai le loro risate entusiaste mentre salivano e scendevano senza sosta le prime scale mobili che avessero mai visto! Queste donne erano ospiti in una cascina fuori Torino da contadini dell’Astigiano. Loro non parlavano una parola di nessuna altra lingua che non fosse il swahili e i contadini conoscevano solo il loro dialetto. Eppure la cena che abbiamo diviso insieme è stata un vero momento di gioia e di condivisione. A parlare era il cibo, il risotto con i gobbi dei nostri contadini e la carne di cammello delle donne africane. Sembrava ci conoscessimo da sempre. Il cibo, ho scoperto allora, non ha bisogno di parole.
Un po’ mi dispiace perciò di non essere lì quest’anno, di non incontrare tanti vecchi amici, di non curiosare tra gli stand alla ricerca di prelibatezze da assaggiare e da portarmi via. Ma i tempi cambiano, ho tanti progetti in piedi che devono essere seguiti. Però l’idea, quella resta: nutrire il pianeta in modo sano e responsabile, buono, pulito e giusto, come direbbe Petrini. L’anno in corso è stato dichiarato dalle nazioni Unite Anno Internazionale dell’Agricoltura familiare e non è una pura questione celebrativa. L’agricoltura familiare ha dovuto fare un bel po’ di anticamera culturale e ora che un’istituzione sovranazionale la celebra non dobbiamo pensare nemmeno per un attimo che sia un affare di poca importanza perchè è grazie a lei che finora si è salvato il pianeta ed è sempre grazie a lei che il pianeta non si perderà.
Dunque Viva il Salone del Gusto!
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